Economia

Hub comunitari, ecco il futuro dei consorzi

«I consorzi sono chiamati a far evolvere il tradizionale modello organizzativo costruito sull’esigenza di supportare le imprese sociali nel rapporto con la PA e nell’erogazione dei tradizionali servizi gestionali, proponendosi come piattaforme aperte a matrice cooperativa». L'intervento del direttore di Aiccon dopo la convention milanese di Cgm

di Paolo Venturi

“Non è importante solo cosa facciamo. È importante come lo facciamo. Sta tutta lì la differenza che vogliamo raccontarvi…” È il messaggino lanciato dal CGM durante la convention che ha radunato quasi mille imprenditori italiani a Milano presso Superstudio in via Tortona. Un messaggio che in tempi di cambiamenti e trasformazioni radicali può apparire tutto sommato una sfida “soft”, un semplice richiamo alle imprese sociali e ai loro consorzi nel ridisegnare servizi sociali spesso disallineati da bisogni sempre più personalizzati, ma non è così. In quel come c’è il “codice sorgente” dell’innovazione della cooperazione sociale, un’innovazione di metodo che, da Milano, il più grande gruppo di imprese sociali in Italia vuole rilanciare e rigenerare. Una sfida che non si limita a ridefinire strategie e alleanze, ma che richiede una nuova stagione di investimenti per creare soluzioni (e non solo servizi) capaci di integrare welfare e economie di luogo; il tutto non per una deriva mercatista, ma al contrario per “non lasciare indietro nessuno”. Una scelta coraggiosa proprio nel momento in cui la tensione sociale, collaborativa e comunitaria (spesso accelerata dalla tecnologia e dalle motivazioni prosociali dei millennials) viene assunta dalle imprese for profit come elemento “core” nella produzione del valore e non più solo come mera esternalità (spesso derubricata come CSR)

Non basta pertanto un welfare costruito sulla “negoziabilità” delle prestazioni. Il welfare del futuro deve partire dalla “vulnerabilità” come cifra su cui costruire comunità intraprendenti

Serve un’innovazione sociale capace, come ha ricordato Stefano Zamagni nel suo intervento, di tenere insieme fini e mezzi e che operi su 4 fronti: ridisegnare i modelli di servizio alla persona attraverso logiche ispirate alla personalizzazione e alla co-produzione, ridisegnare alleanze e modelli di affidamento con la PA con l’intento di favorire la co-progettazione e la creazione di governance plurali a finalità pubblica, superare l’approccio di mera sub-fornitura o sponsorizzazione con le imprese proponendosi come attore di sviluppo locale a base comunitaria e conversare con quella finanza capace di misurarsi su parametri legati all’impatto sociale.

Sfide per un nuovo welfare che riduca le disuguaglianze e che offra opzioni comunitarie a quella terza società (oltre 10 milioni di persone) che rischiano di cadere non solo per mancanza di reddito, ma perché sole e slegate da una dimensione di comunità. Non basta pertanto un welfare costruito sulla “negoziabilità” delle prestazioni. Il welfare del futuro deve partire dalla “vulnerabilità” come cifra su cui costruire comunità intraprendenti e giocare la partita su una pluralità di filiere oltre a quella socio-assistenziale. Questa visione postula però nuove reti.

Occorre aumentare “la scala” ossia la voglia di crescere sia in termini economici che sociali. Una scala che non può fare a meno del desiderio e delle aspirazioni dei giovani e di chi lavora nelle imprese sociali, di nuovi ecosistemi fra “diversi” per supportare l’investimento di nuove comunità di sviluppo e soprattutto di nuovi modelli organizzativi (competenze e tecnologie)

In questo senso i consorzi sono chiamati a far evolvere il tradizionale modello organizzativo costruito sull’esigenza di supportare le imprese sociali nel rapporto con la PA e nell’erogazione dei tradizionali servizi gestionali, proponendosi come “hub comunitario”, ossia come una piattaforma aperta a matrice cooperativa.

Luoghi dove l’impresa sociale nelle sue diverse declinazioni trova “casa”, al fine di generare processi di co-progettazione, co-innovazione e co-investimento per quella crescente fascia di popolazione a cui è negata una “vita buona”.

Percorre questa prospettiva, richiede però, come ha ricordato Elena Casolari, la forza di aumentare “la scala” ossia la voglia di crescere sia in termini economici che sociali. Una scala che non può fare a meno del desiderio e delle aspirazioni dei giovani e di chi lavora nelle imprese sociali, di nuovi ecosistemi fra “diversi” per supportare l’investimento di nuove comunità di sviluppo e soprattutto di nuovi modelli organizzativi (competenze e tecnologie) capaci di rendere coerenti i mezzi con il fine d’interesse generale a cui l’impresa sociale da sempre deve tendere.

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