Politica

Housing association,bla buona ricetta inglese

L'urbanista Giovanni Caudo: «Come si esce dall'impasse sulla casa»

di Redazione

In Italia nel 2006 sono stati costruiti 1.990 alloggi popolari. A Londra, in tre anni, 11mila. Questo grazie ai cosiddetti “proprietari sociali”, che gestiscono gli affitti degli immobili costruiti dalle imprese. Ecco come funziona C ome mai l’Italia continua a cercar casa? «Perché la storia delle politiche abitative è una storia delle politiche edilizie», risponde Giovanni Caudo , docente di Progettazione urbanistica a Roma e “sceneggiatore” del video Dalla casa all’abitare (la regia è di Maki Gherzi) che introduce il padiglione italiano alla Biennale di architettura. «Un limite», continua il professore, «che non ha aiutato a distinguere la questione della casa da quella dell’abitare e ha spinto a puntare più sulla proprietà che non sull’affitto, scelta che oggi non regge».
Vita: Eppure sono state realizzate diverse politiche.
Giovanni Caudo: Distinguerei tre fasi. La prima dal 1919: si mette a punto un intervento per favorire una produzione edilizia mirata alle fasce sociali più deboli. Lo Stato si fa promotore di incentivi per alloggi di carattere sociale. Misure poi allargate in maniera indiscriminata.
Vita: La seconda?
Caudo: Quella fascista. Nel ventennio nascono istituti che, oltre al lavoro, si occupano della vita dei ceti impiegatizi: un meccanismo anche di controllo, ma che permette di intercettare le esigenze di una fascia della popolazione non necessariamente disagiata. Nasce la casa pubblica non popolare, per soddisfare la domanda dei ceti medi.
Vita: La terza fase?
Causo: È il secondo dopoguerra. Con l’industrializzazione, l’emigrazione interna verso Nord e l’inurbamento di grandi masse si apre la stagione d’oro dell’edilizia. Una fase in cui s’incontrano due esigenze diverse. Quella dei grandi industriali che cercano operai ma ritengono che il problema della casa riguardi lo Stato, e quella del sindacato che chiede al governo di risolvere la questione abitativa. Nel 1971 è approvata la 865, la legge che dà origine al più grande intervento pubblico che la storia italiana ricordi. Oggi circa 700mila famiglie abitano in alloggi costruiti con quel sistema.
Vita: Ora la domanda insoddisfatta è dei ceti medi…
Caudo: La questione abitativa la si risolve solo in parte costruendo case. Le faccio l’esempio di una coppia anziana in affitto da 40 anni; il canone si impenna e i due non possono più pagare la pigione. Che si fa? Costruiamo loro una casa popolare?
Vita: Dunque cosa propone?
Caudo: Il punto debole italiano è l’affitto: le famiglie sono molto esposte agli aumenti del canone; otto su dieci hanno un contratto di libero mercato. Negli altri Paesi la percentuale è esattamente inversa. Dunque è necessario rilanciare l’affitto. Oltretutto sarebbe utile per lo sviluppo economico del Paese. Diciamo che abbiamo bisogno di flessibilità, che le persone devono essere disponibili a spostamenti. Allora dobbiamo creare le condizioni perché questo sia possibile. Già oggi un’azienda che voglia trasferirsi, s’informa su com’è il mercato dell’affitto nella zona in cui ipotizza di muoversi.
Vita: Come ottenere questo risultato?
Caudo: La politica dell’abitare è come una margherita con tanti petali. A parte la leva fiscale, si potrebbero costruire alloggi con questo specifico obiettivo. Il piano del governo stanzia 700 milioni di euro. Non sono pochi. Da parte loro i Comuni hanno una risorsa che spesso sprecano: il suolo. Mi riferisco a quelle aree dismesse o sottoutilizzate che potrebbero essere usate per utilità sociale. Magari guardando all’esperienza inglese.
Vita: E cioè?
Caudo: Contrariamente alle scelte di Margaret Thatcher, che puntava a vendere il patrimonio pubblico, il suo successore, John Major, varò una riforma in seguito alla quale l’edilizia pubblica venne affidata al non profit. Una scelta, confermata poi dal governo Blair, che rafforzò moltissimo le housing association, che oggi sono quasi duemila. Il risultato è che si è data una risposta efficace alla domanda di una fascia sociale troppo ricca per la casa popolare, troppo povera per il mercato. In una città come Londra, fra il 2004 e il 2006 sono stati consegnati oltre 11mila appartamenti. Per un paragone: in tutta Italia nel 2006 sono stati realizzati 1.990 alloggi popolari. Lo schema inglese è molto semplice: alle fasce più povere sono destinate case costruite interamente con soldi pubblici; sopra questo livello sociale minimo si apre una forma intermedia supportata da risorse economiche raccolte dal non profit e gestita dalle housing association, i proprietari sociali che non abbiamo e che sarebbe bene “importare”.
Vita: In che modo?
Caudo: Istituendo un registro di tali soggetti, che potrebbero gestire gli affitti degli immobili costruiti dalle imprese fissando canoni più bassi del mercato di un 30-40%.
Vita: Il costruttore venderebbe al Comune?
Caudo: Il soggetto pubblico potrebbe mettere le aree; le imprese si occuperebbero solo di costruire e la gestione andrebbe all’housing sociale. È una piccola rivoluzione.
Vita: Abolita l’Ici, gli oneri di urbanizzazione sono una fonte di reddito per i Comuni…
Caudo: È vero. Però tali oneri ora sono utilizzati per le spese ordinarie. Non ci siamo attrezzati rispetto all’evoluzione del mercato. Dal 1998 a oggi il valore immobiliare è almeno triplicato. A ogni compravendita il valore di una casa aumenta. Si è creato un plusvalore che i Comuni non sono stati in grado di intercettare. L’onere di urbanizzazione è applicato solo in caso di nuove costruzioni. Ma oggi si realizzano grandi plusvalori vendendo e trasformando l’esistente…
Vita: Come declinare da noi l’housing association?
Caudo: Il non profit italiano si è solo marginalmente posto il problema della casa. Dovrebbe puntare all’albo dei proprietari sociali e quindi dedicarsi alla gestione partecipativa delle abitazioni affittate.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.