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Hotspot migranti. L’Unione Africana: «Non vogliamo europei sul nostro territorio»

La retorica dell'«aiutiamoli a casa loro» nasconde una profonda ipocrisia e muove da un'idea sbagliata: che l'Africa sia terra di nessuno. Ma i leader africani non ci stanno

di Marco Dotti

Strutture gestite dall’Europa nei Paesi di origine e di transito dei migranti. Strutture per identificare, registrare, raccogliere informazioni personali sui migranti. La proposta sugli hotspot gestiti da europei in terra d'Africa, «con l’obiettivo di limitare il traffico di esseri umani», era stata (ri)lanciata nel giugno scorso dal Ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi.

«Non mi piace il termine hotspot – continua il ministro degli Esteri. Li chiamerei centri di assistenza, informazione e protezione» dichiarava in estate il Ministro. «Devono essere centri europei, con la bandiera blu a dodici stelle e personale di tutti gli Stati Ue». Ma anche cambiando l'ordine dei fattori l'idea, evidentemente, non sembra incontrare attenzione.

Anzi. Sempre nel luglio scorso, al trentunesimo vertice dell'Unione Africana, i delegati si sono detti contrari alle piattaforme di sbarco e ai centri per i migranti in Africa ritenendoli in contrasto con le leggi internazionali.

Allora, perché questa insistenza sugli hotspot? L'Europa è oramai visto come un mostro a tre facce. Prima faccia: l'Europa è l'istituzione che lascia morire la gente in mare. Seconda: l'Europa è l'istituzione che, quando non lascia morire la gente in mare, la rinchiude in hotspot. Terza faccia: la retorica.

Piaccia o no e piacciano o meno i leader africani che si fanno carico di tali accuse, c'è un dato di realtà nelle loro parole. Non possiamo negarlo.

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