Mondo

“Hotel Rwanda”: il genocidio del ’94 in pellicola

Dopo il trionfo ottenuto negli Stati Uniti, il film co-prodotto dalla casa produttrice italiana Mikado sbarcherà in Italia a marzo

di Joshua Massarenti

Per chi non è critico cinematografico, ma che del Rwanda e della sua drammatica storia ne ha seguiti i più minimi dettagli, “Hotel Rwanda” risulta un film convincente quanto soprendente. Convincente per il modo con ui il regista irlandese Terry George ha saputo adattare su grande schermo lo sterminio dei rwandesi tutsi rimanendo fedele alla storia più “immediata” del genocidio rwandese, ovvero i cento giorni in cui si è svolto (aprile-luglio 1994). Sorprendente perché il film riesce nell’impresa di narrare una vicenda extra occidentale con una grande capacità di non snaturare le caratteristiche intrinseche proprie delle dinamiche psicosociali rwandesi. E qui, grande merito va attribuito all’attore americano Don Cheadle che nel film assume le vesti di Paul Rusesabagina, un albergatore hutu che sfidando, pregando e talvolta corrompendo militari e miliziani estremisti della sua stessa etnia offrì rifugio all’Hotel des Milles collines a 1.268 rifugiati tutsi salvando loro la vita. Chi in Rwanda si è recato oppure chi ha fatto conoscenza con cittadini rwandesi, non può non essere rimasto colpito dalla riservatezza e dei comportamenti misurati con i quali un rwandese esprime i propri sentimenti. Nel corso della commemorazione decennale del genocidio svoltasi in Rwanda nell’aprile scorso, ho avuto occasione di incontrare numerosi sopravissuti e carnefici del genocidio. Oltre alla dimensione apocalittica delle testimonianze raccolte, ancora oggi non posso non dimenticare il modo sconcertante con cui queste persone mi hanno racontato la loro vicende. I toni erano sempre pacati, quasi neutrali, come se a rivelare i propri dolori e torture psicologiche fosse un narattore esterno. Non conto più le volte in cui con voce soffocata, ma lungi dall’esprimere apertamente sentimenti angosciosi, i sopravissuti hanno dovuto interrompere il proprio racconto “per non impazzire”. Sebbene alcuni critici americani abbiano messo in evidenza come il film fosse un filo troppo impregnato da una vocazione sentimentale per fini commerciali, tra l’altro giustificati per chi intende divulgare la storia del genocidio rwandese ad un vasto pubblco, la performance di Cheadle riesce nell’impresa di assumere i tratti psicocomportamentali del rwandese lambda e nel contempo fare emergere un essere umano (non solo rwandese) in grado di compiere gesti fuori norma in tempi di violenza estrema senza tuttavia volersi apparentare ad una figura eroica. Tra finzione e realtà, Cheadle gioca sul filo del rasoio uscendone trionfatore assoluto. Terry George non è certa estraneo alla prestazione dell’attore statunitense. Con “Hotel Rwanda”, il regista irlandese conferma la sua vocazione per temi sociali fori (è stato lo sceneggiatore di “In the Name of the Father” e di “The Boxer”). La storia del genocidio e di Paul Rusesabagina “è una storia che mi sta veramente a cuore e che mi piace” sostiene George, che spiega: “E’ la storia di un uomo qualsiasi che con il sostegno della propria moglie, diventa in grado di sfruttare la sua posizione per aiutare gli altri”. Per portarla sullo schermo, Terry George si è recato assieme a Rusesabagina in Rwanda “per capire le dimensioni reali di questo genocidio”. Impressionato dalla realtà che incontra, George decide comunque di “non fare un documentario, ma una distillazione emotiva degli eventi e dei fatti storici vissuti da Paul e dalla sua moglie (interpretata da Sophie Okonedo)”. Tra i meriti del regista irlandese, colpisce la sua capacità di mettere in rilievo, senza mai tradire l’obiettivo vero del film (ovvero una storia di personaggi), i fatti e fattori storici principali del genocidio: dalle milizie estremiste hutu interehamwe che preparano e perpretano il genocidio assieme a politici e militari imbevuti di teorie di superiorità razziale sui tutsi all’impotenza di caschi blu di fronte a eccidi rispetto ai quali la Comunità internazionale è rimasta indifferente (gli Stati Uniti di Clinton, l’Onu dell’allora segretario del Dipartimento degli affari umanitari Kofi Annan) se non addirittura complice (la Francia di Mitterand). La critica cinematografica ha usato i superlativi per definire ‘Hotel Rwanda’ e il suo protagonista, l’attore afroamericano Don Cheadle, autore per molti di una ”interpretazione fenomenale” (Chicago Tribune). C’e’ chi si è spinto a ipotizzare che Cheadle possa essere un temibile avversario per l’Oscar, tra gli attori neri, per Jamie Foxx e la sua versione cinematografica di Ray Charles. A dieci anni da un genocidio che in 100 giorni vide massacrati circa 800 mila tutsi, il film negli Usa è stato accolto anche come un avvertimento di stretta attualità. Il timore, come ha scritto Margaret Carlson sul Los Angeles Times, è che tra qualche anno Hollywood si trovi tra le mani il copione ”di un sequel che nessuno dovrebbe mai vedere”, quello di un ‘Hotel Sudan’. La sottovalutazione di ciò che avvenne in Rwanda da parte della Casa Bianca di Bill Clinton e le promesse dello stesso Clinton e di George W.Bush che una tragedia del genere non si ripeterà, si scontrano secondo molti osservatori con ciò che sta avvenendo nella regione sudanese del Darfur. Gli Usa hanno usato nei mesi scorsi la parola ‘genocidio’ per il Sudan e l’ambasciatore americano all’Onu, John Danforth, ha accusato pubblicamente l’assemblea generale dell’Onu di non star muovendo un dito per agire.


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