Si è dovuto aspettare un pò: un’introduzione infarcita di riferimenti concettuali (capitale sociale, cultura e sviluppo locale, reti globali, ecc.) ed espedienti retorici (essere “uncorrect”) tanto alla moda quanto consunti. Poi una relazione che è riuscita a mischiare in poco più di venti minuti un campionario di fenomeni, tendenze e intepretazioni classificabili sotto l’etichetta “cultura” lasciando tutto rigorosamente in ordine sparso su uno sfondo, cupo naturalmente, di catastrofismo da crisi. Le pene iniziali sono state però ricompensate dall’intervento – compresso nei tempi purtroppo – di Ezio Manzini, uno dei più brillanti cercatori e analisti di innovazione sociale a livello internazionale (e naturalmente poco conosciuto in patria, ma ci si sarebbe dovuto sorprendere del contrario). La sua analisi funziona perché mescola con efficacia micropratiche e pensiero sistemico. Se il mix salta, l’innovazione sociale perde inevitabilemente consistenza divenendo, per la felicità dei suoi critici, un concetto astratto nella formulazione e polverizzato nelle fenomenologie. Invece il quadro di senso tracciato da Manzini tiene e così l’innovazione sociale acquisisce quella carica rivoluzionaria ed anche seduttiva legata al fatto che è possibile sovvertire il paradigma dominante con iniziative della porta accanto che tutti possono intraprendere se lo vogliono. Di seguito qualche appunto intorno al quale si ricompongono significati e orientamenti dell’innovazione sociale:
– le nuove risorse del web stanno cambiando i livelli di connettività sociale come – e più – di quel che fece l’invezione della stampa qualche secolo fa; i cambiamenti nelle relazioni si trasferiranno alle forme organizzative tradizionali e ai loro principi regolatori – burocrazia e scambio mercantile – trasformandole in profondità; per ora i sistemi organizzativi hanno cercato di incorporare le nuove tecnologie modificando poco la loro struttura, ma a tendere si assisterà a un sovvertimento di dimensioni consistenti;
– prima del cambiamento organizzativo viene la rigenerazione delle persone e delle loro relazioni sociali rispetto alle quali le tecnologie rappresentano un acceleratore; nelle nostre società significa ridefinire le relazioni di servizio, rompendo il dualismo produttore / consumatore o, sul fronte culturale, tra il performer e il pubblico;
– l’innovazione sociale è sostanzialmente coproduzione di beni e servizi che soddisfano esigenze ben precise (cura, mobilità, abitazione, ecc.) e generano sottoprodotti assai ricercati come i legami fiduciari che tengono assieme le comunità; si basa su una nuova concezione di “qualità” che si rende visibile attraverso trade off diversi dal passato, ad esempio in campo alimentare rinunciando alla varietà di prodotti per aumentare la relazionalità con i produttori.
L’aspetto più rilevante di queste argomentazioni è che, in gran parte, riguardano il welfare e, inevitabilmente, il ruolo dei soggetti non profit e di impresa sociale, molti dei quali sono stati sradicati dalle reti sociali primarie diventando erogatori di prestazioni per conto della pubblica amministrazione. I servizi domiciliari rappresentano forse il caso più emblematico: così innovativi nella loro formulazione originaria (anti istituzionali e personalizzati) ed oggi burocratizzati in prestazioni a costo orario che hanno penalizzato proprio il lavoro sulle relazioni e le reti. Chissà quale rigenerazione uscirebbe da un confronto tra cooperative sociali di assistenza domiciliare, spesso viste come le più conservatrici, e un designer dei servizi come Manzini.
Rimangono due questioni sullo sfondo, legate all’attualità e al futuro prossimo dell’innovazione sociale. I soggetti che la promuovono vengono spesso rappresentati come degli hopeful monsters in biologia, cioè individui mostruosi rispetto ai canoni della specie di appartenenza ma che alla lunga si rivelano più adatti alla sopravvivenza. Un’immagine efficace ma che forse andrebbe aggiornata considerando che l’innovazione sociale è sul tavolo della presidenza della Commissione Europea ed è quindi parte delle politiche economiche e sociali mainstream. Non sono più scherzi della natura e una nuova specie si è affermata verrebbe da dire. La seconda questione riguarda le modalità di coinvolgimento nelle iniziative di innovazione sociale. Riproporre approcci tipicamente novecenteschi come il volontariato da fare nel “tempo libero” poco si adatta a pratiche dove invece gli apporti volontari si mischiano a prestazioni lavorative e a imprenditorialità diffusa. Ma su questo punto saranno probabilmente gli effetti a medio termine della rivoluzione tecnologica in atto a delineare la soluzione.
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