Volontariato

Hong Kong: in una casa famiglia. Come è difficile chiamarsi Incontro

In una città che sfugge i contatti umani, un prete italiano non si scoraggia. Ma ammette: "Qui è cambiato tutto".

di Emanuela Citterio

Il suo appartamento è l?unico ad avere un nome, Incontro, una casa famiglia per persone disabili. Un nome che è un controsenso, di questi tempi, a Hong Kong. Soprattutto a Waterloo Road, la strada in cui abita la ?famiglia? di padre Giosuè Bonzi, missionario del Pime a Hong Kong dal 1967, che vive nella zona di Kawloon, in mezzo a una selva di condomini popolari. Sul lato opposto c?è il Metropole Hotel, l?albergo dal quale è partito il contagio. La casa-famiglia fa parte di una rete che assiste 1.800 persone disabili. Tutto è nato nel 1977: per i portatori di handicap e le loro famiglie non c?erano servizi e padre Giosuè, con un gruppetto di volontari, fondò la prima comunità. Oggi tutto è gestito autonomamente da un ente non governativo, la Fu Hong Society. Lo scorso marzo, oltre alle due case-famiglia già esistenti, Incontro e Concordia, ne è stata aperta un?altra, Splendore. “Di tutti i ragazzi disabili, solo uno finora è stato contagiato, assieme ai suoi genitori”, racconta padre Giosuè. “Abitavano nel complesso di condomini Amoy Garden, dove circa 300 abitanti si sono ammalati di polmonite atipica. Fortunatamente, dopo le cure in ospedale, l?intera famiglia è guarita”. Dopo dieci giorni di quarantena, per gli ospiti delle case-famiglia e dei centri di assistenza il pericolo per ora sembra scongiurato. Ma niente tornerà come prima. “Dopo Pasqua le scuole medie e superiori sono state riaperte”, dice al telefono un responsabile della Caritas di Hong Kong. “Il governo lo ha deciso non perché la situazione sanitaria sia migliorata rispetto a un mese fa, ma perché c?è stato il tempo di prepararsi”. Nelle scuole si studia con la mascherina, negli ospedali tutto il personale usa vestiti isolanti, in ogni centro pubblico si disinfetta tutto almeno tre volte al giorno. Per chi lavora nei servizi sociali, il contatto diretto con le persone è inevitabile. “Certo, abbiamo tutti paura, ma è nostro dovere continuare a prestare assistenza, soprattutto ora che ce n?è più bisogno”, dichiara il responsabile della Caritas, che insiste per non essere citato, e preferisce continuare a lavorare nell?anonimato. In questi mesi il sistema sanitario di Hong Kong ha retto. Grazie al lavoro egregio del personale statale negli ospedali pubblici e a tutta la rete di assistenza non governativa che lo sostiene. I servizi sociali a Hong Kong sono gestiti in gran parte da una vivace società civile, cui una politica governativa ha saputo dare spazio e risorse. Solo la Caritas conta 4.600 persone impiegate a tempo pieno, oltre a una fitta rete di volontari che opera nei servizi più disparati, dagli ospedali ai centri di aggregazione giovanile, dai laboratori per i disabili agli ostelli per turisti. Ogni giorno gli infermieri del Caritas Medical Center di Hong Kong vanno nel famigerato complesso di caseggiati Amoy Garden. Il loro compito è di portare cibo, mascherine e assistenza alle persone che vivono in isolamento. “Hanno fatto dei corsi per proteggersi dal virus”, spiegano alla Caritas. “Mettono in atto tutte le precauzioni. E cercano di farsi coraggio”.


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