Mondo

“Ho visto un fuoco”

di Wael Farouq

In lingua araba, se sentiamo la mancanza di qualcuno, diciamo: awḥaštanī, cioè “mi hai fatto provare la waḥša. Questo verbo non significa, come succede in molte altre lingue, che qualcosa ci viene a mancare a causa dell’assenza di un altro. La waḥša araba è la fame, il deserto, il vuoto. waḥš è l’animale del deserto, selvatico e non addomesticabile. La waḥša è un vuoto che inghiotte l’esistenza. Nella waḥša l’essere umano non è solo, ma singolo, “uno”, cioè senza un altro; e niente addolora di più il singolo, l’”uno”, della certezza che mai conoscerà e mai sarà conosciuto. Non lo compenserà l’aver conosciuto prima, perché la conoscenza è un evento continuo, il cui passato non compensa il presente.

Opposto a waḥša è uns da cui deriva la parola insān, essere umano. Fra i significati di uns troviamo: felicità, piacere; sentirsi a casa, in famiglia (l’opposto dell’esilio); amabilità; vedere e (ri)conoscere; riposarsi, sentirsi sollevati e al sicuro in presenza di qualcuno o qualcosa; ascolto e quiete. Per l’uns non ci sono un tempo, un luogo o un umore specifici. È qualcosa che siamo e di cui abbiamo bisogno in ogni situazione: nella gioia e nei momenti di festa o nella tristezza e nel dolore; quando ci sentiamo al sicuro e quando abbiamo paura; quando la certezza riempie i nostri cuori e quando li dilania il dubbio. uns è una parola che raccoglie in sé tutti i significati dell’umanità. Per questo, se dici a una persona, in arabo, awḥaštanī, gli stai dicendo: “Sono un vuoto che solo la tua presenza può riempire”.

Dopo anni di doloroso esilio, e di estenuante nostalgia, Mosè decise di tornare al suo paese, l’Egitto, tuttavia smarrì la strada. In una notte freddissima e nera come la pece, scoppiò una tempesta e il suo cuore si riempì di dubbi, paure e allucinazioni. Nel bel mezzo della tempesta, solo e smarrito, Mosè vide un fuoco e il suo cuore fu pervaso dall’uns (“Innī ãnastu nāran”, Corano 20:10). L’uns lo condusse fino al fuoco che illuminò il suo spirito, per poter incontrare e parlare con Dio. Il passaggio dalla waḥša più assoluta all’uns non richiede altro che un occhio ben aperto e un cuore che cerca l’incontro.

È tornato un altro ramadan e la guerra in Siria continua ancora. Tuttavia, anche sommersi dalla waḥša della guerra, le pallottole e le schegge impazzite non impediscono che un ragazzo si riempia gli occhi della bellezza di una ragazza, né che il suo cuore trabocchi di amore per lei; e la guerra non impedisce nemmeno il tremito di speranza e la radiosità del sogno nel cuore di lei. Nella crudeltà avara della guerra, c’è un bambino che farfuglia le sue prime parole e il riso scoppia puro e copioso dal cuore dei suoi genitori. Nell’inferno della guerra, in qualche stanza, la debole voce della nonna copre il rumore delle esplosioni, mentre racconta storie di belle principesse in città eternamente felici. Nella waḥša della guerra c’è vita, fragile e intrepida come un fiore che sboccia dal nero asfalto. Nell’inferno della guerra, ci sono fiori che sbocciano, perché in quella nera oscurità ci sono occhi che non cessano di cercare la luce, o una fessura attraverso cui possa spingersi un bocciolo per annunciare che nulla è impossibile per la vita.

Nella waḥša della guerra, le armi inceneriscono ogni cosa. Tutto brucia, solo le storie illuminano, predisponendo i cuori allo uns.

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