Cultura
Ho superato la Fiat. Come vivere senza Mirafiori
Viaggio nella Torino che guarda oltre la crisi. Le parole di Don Ciotti, Olivero, Revelli, Bresso
Si chiama Arisio ed era un quadro della Fiat che partecipò il 14 ottobre del 1980 alla storica Marcia dei 40mila. Ma le coincidenze finiscono qui: lei si chiama Maria Teresa e non Luigi, come il capo del corteo anti sciopero che mise in ginocchio dei sindacati forse troppo prigionieri dell?ideologia.
La vera storia di Maria Teresa comincia anni più tardi, nel gennaio del ?94. Ha 49 anni e da 33 è in Fiat, dove lavora alla direzione di Mirafiori: «Ero entrata da ragazzina, con il diploma di segretaria d?azienda», ricorda.
Una giorno però il computer della Direzione risorse umane produsse un tabulato con alcune migliaia di nomi: i dipendenti con più di 45 anni e con almeno 28 anni di servizio. Parametri che rispondevano ai requisiti di una ?leggina? che prevedeva prepensionamenti per le industrie in crisi dei grandi centri urbani.
In corso Marconi dovevano aggiustare i conti in rosso del settore auto e stilarono una lunga lista di dipendenti in eccesso: «I più fortunati destinati al prepensionamento, gli altri a 8 lunghi anni di mobilità a 1 milione di lire al mese». Maria Teresa Arisio è del gruppo. A nulla valgono i decenni di servizio, l?essere figlia di un dipendente, l?aver scalato con profitto le gerarchie aziendali. «A dicembre mi avevano dato persino un premio», dice ridendo. A gennaio la cacciano. «Lo vissi come un tradimento», ricorda, «pensi che il dirigente mi salutò dandomi appuntamento al lunedì seguente, mentre a casa era arrivato il telegramma». Una ristrutturazione epocale, che vide mettere alla porta quasi 4mila impiegati e quadri. L?inizio di un incubo: «Ricordo la violenza della parola ?esubero?: la scoperta che da un giorno all?altro non servivamo più» .
E oltre al danno del licenziamento, la beffa di aver sempre sostenuto il ?Fiat pensiero?. Anche nei drammatici anni 80: «Sì, andai in corteo anch?io, con i colletti bianchi. Ero stanca dei picchetti, delle violenze, volevo lavorare», ricorda. Luigi Arisio, il sanguigno leader dei quadri, le parve uno cui andar dietro: «E dire che, nei mesi successivi al mio licenziamento, fu proprio lui a impedirmi di prendere la parola a un incontro degli anziani Fiat: capì in quell?attimo quanto fossi stata strumentalizzata».
Uno strappo alla vita: perché per Maria Teresa Arisio, cresciuta alle feste della Fiat, andata in vacanza nelle colonie della Fiat, riposti nella Fiat i sogni di realizzazione professionale, la grande fabbrica era l?esistenza.
La svolta nel sociale
Si stupisce non poco quando incrocia i giovani delle cooperative sociali torinesi. «Quelli del consorzio Ics coordinavano un progetto per reinserire alcuni licenziati», racconta, «e conobbi un mondo nuovo di lavorare: una passione competente, desiderosa di crescere. E attenzione alla persona. Me ne innamorai».
Punto e capo. Comincia qui la nuova vita di Maria Teresa Arisio, ex esubero Fiat. In breve finisce alla guida della cooperativa Creattività, aderente al consorzio. «La sorpresa fu che quel mondo e quel modo di lavorare non solo valorizzavano le mie capacità professionali ma mi facevano esprimere anche meglio di quando ero nella grande fabbrica».
Anni esaltanti, ma non certo semplici. «Un momento difficile fu quando il Comune ci affidò i servizi di custodia delle scuole torinesi», dice, «impiegavamo anche ex tossicodipendenti e alcuni genitori cominciarono a raccogliere firme contro». L?esperienza nel complesso è esaltante: «Partecipai alla creazione del progetto sin dall?inizio, facendo i colloqui per le assunzioni. Dare gambe a un?idea, vederla crescere, è stato gratificante».
Soddisfazione che dura ancora. Non che la conduzione di una coop con 147 addetti e che fattura 2,6 milioni di euro sia uno scherzo: «Significa chiudere un bilancio con un attivo di poco più di 70mila euro, perché non vogliamo applicare i minimi contrattuali alla gente che lavora con noi».
E anche la gestione del servizio presenta la sua complessità: «Ci sono giorni in cui m?incazzo nera, come non mi capitava a Mirafiori», ammette, «ma poi guardo le persone svantaggiate che con questo lavoro hanno riguadagnato dignità. Li chiamo ?i nostri piccoli?. Gente che è arrivata a noi dal dormitorio pubblico e che oggi sta mettendo su casa. Miracoli che in Fiat non avrei mai visto».
Il mondo della solidarietà alla prova: Luigi, Ernesto & C.
Torino ha attraversato una sfida e ha vinto. La città ha accolto 800mila immigrati del Sud e dell?Est della nostra penisola in pochi decenni. Quell?immigrazione poteva piegare la città, snaturarla mentre ciò che è successo è sorprendente: Torino ha proposto integrazione, ha trasformato una difficoltà in risorsa e ha sperimentato, in concreto, che la vera città sicura è la città che accoglie, non quella che respinge».
La città che ci racconta don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, non teme l?ennesima crisi Fiat: ha le risorse, le energie per uscire da questa e altre difficoltà.
Vita ha scartato corso Marconi, Lingotto, Mirafiori, la toponomastica regina del capitalismo italiano, per andare a cercare le vie e le piazze della Torino sociale.
Quella che si incontra in fondo a corso Bologna, in mezzo alla casbah di Porta Palazzo, nella casetta dove si curano gli immigrati cui l?Occidente ha dato alla testa. Stranieri alla città e stranieri a se stessi, ovvero poveri tra i più poveri. Di loro si occupano i volontari cottolenghini. «Un tentativo di rispondere ai tanti bisogni che questo quartiere pone», dice suor Angela Galli, che li coordina. Il santuario della sofferenza e della gratuità ha sentito di doversi aprire ai bisogni che lo circondano con una prossimità impressionante: fra Porta Palazzo e i suoi africani, via Cigna piccola Bucarest sotto la Mole, San Pietro in Vincoli con il mercato etnico. E dire che l?istituto brulica già di volontari «circa 1.200», ai quali si aggiungono «circa 200 giovani durante le vacanze scolastiche».
Profeti moderni
In zona piazza Rivoli, al numero 18 di via Capriolo, c?è fra? Celestino Zanoni, dei Fratelli delle scuole cristiane. Ha lasciato vent?anni orsono l?insegnamento, dedicandosi ai figli degli immigrati falcidiati dall?eroina. Oggi nel suo Gruppo Arco, comunità terapeutica della Fict, accoglie una settantina di giovani, con 30 operatori e un centinaio di volontari. «Come sta la Torino del sociale? In buona salute, a giudicare dal gesto di Ernesto Olivero che voleva accogliere al Sermig i palestinesi: finché dura nel tempo questo dono di profezia, questa incoscienza che porta a dire sì prima di analizzare i problemi, significa che siamo vivi».
La visione di fra? Zenoni non è affatto trionfalistica: «Il volontariato sta invecchiando», dice senza timori, «arriviamo con meno facilità del passato a coinvolgere i giovani. Ora la sfida diventa il servizio civile».
La difficoltà a incrociare le attese dei giovani torinesi è confermata da una grande realtà del volontariato laico come le Pubbliche assistenze: «Quando l?elemento aggregante non è una scelta di tipo religioso, si nota una certa difficoltà nel reperire volontari giovani». A parlare è Luciano Dematteis, dell?Anpas Piemonte. La gran parte delle ?croci? della regione sono proprio nella cintura, mentre in città c?è la Croce Verde di via Doré 4,
con i suoi oltre mille volontari, soprattutto giovani, impegnati nel trasporto malati e nella protezione civile.
I bilanci di Olivero
Chi non ha evidentemente problemi di giovani è Ernesto Olivero: in piazza Borgo Dora 61, il suo Arsenale della pace ribolle di under 30. Norberto Bobbio l?ha definito «un filosofo che non si è mai arresto davanti a nessun problema e ha cercato sempre vie nuove». Della non-arrendevolezza di questo ex bancario è testimone tutta l?Italia, quando ha scoperto che progettava di portare a Torino i 13 miliziani palestinesi della Natività. I torinesi la conoscevano da quando, vent?anni fa, insieme con i giovani del Sermig, Olivero cominciò a vegliare in preghiera intorno all?enorme edificio militare in dismissione: chiedeva che fosse affidato a lui. È grazie a questo girotondo ante litteram, senza registi e cantautori ma con rosari e gloriapater, che oggi i paria della grande capitale automobilistica hanno 30mila metri quadri di speranza.
Al cronista che gli chieda come vada la Torino dei volontari, cosa ne sia della città dei ?santi sociali? (Cafasso, Cottolengo, Bosco), lui sciorina i numeri impressionanti delle sue case: «Un milione e 200mila pasti serviti, 506mila notti dormite, 322mila persone sono venute a portarci 1 o 1 milione di euro, 581mila ci hanno portato chi un chilo di riso, chi del formaggio, chi dei medicinali».
Campa di solidarietà Olivero e ne va orgoglioso. Così come è fiero del pragmatismo che lo ha spinto a bussare le porte a ogni politico di turno, da Craxi a D?Alema, da Andreotti a Berlusconi. «Un approccio pragmatico e profetico», precisa, «la crisi non esiste se ci si avvicina al Palazzo senza volerlo possedere ma semplicemente per servirlo».
E alla politica, la società civile si è avvicinata eccome, negli ultimi anni. L?assessore comunale all?Assistenza, Stefano Lepri, arriva direttamente dalle cooperative e la presidente della Provincia, Mercedes Bresso, dall?ambientalismo torinese.
Presenze e percorsi che hanno fatto parlare di Torino come di un laboratorio politico e sociale. «Una stagione positiva che non si è ancora chiusa», dice don Piero Gallo, parroco a San Salvario, dove da anni aggrega italiani e immigrati in un difficile lavoro di integrazione che culmina spesso in feste e spettacoli comuni. Si è «praticamente dissanguato», per restaurare un cinema teatro, il Baretti, che sta diventano un piccolo propulsore di cultura dell?integrazione.
Sul rapporto sociale-politica può dire la sua anche Carlo De Giacomi: non fa il volontario ma dirige da vent?anni Radio Torino Popolare che accompagna, da dieci, la crescita del non profit cittadino con la Tre giorni del volontariato, fiera della società civile. «Nuove leggi come quella sull?assistenza», dice, «impongono un?apertura dell?ente locale alle realtà di volontariato. Ma se le associazioni non vogliono presentarsi davanti agli amministratori con il cappello in mano, devono imparare a progettare».
Da via Giovanni Giolitti 21, dove ha sede il Gruppo Abele, don Ciotti coordina il lavoro di centinaia di volontari sul fronte delle dipendenze, della nuove povertà, dell?educazione alla legalità. Per lui il laboratorio politico «è un percorso ancora da completare ma che è certamente iniziato e che continua a interrogarci. L?elemento nuovo che si è aggiunto in questi ottimi mesi è la consapevolezza che il ?locale? è politica se è capace di abitare il territorio con radicalità e sguardo ?globale?».
Rottamare uomini
In mezzo alla città accogliente c?è sicuramente il consorzio Ics di corso Francia 126. Sta per Imprese cooperative sociali, sponda Confcooperative: «Nel 92, quando partimmo, erano solo 5», dice Massimo Novarino, direttore generale del consorzio, «oggi sono 38, per mille addetti, in parte svantaggiati, e 18 milioni di euro di fatturato».
Lontane dai numeri Fiat, queste coop accolsero a metà negli anni 90 alcune centinaia di licenziati, in un?altra, drammatica, ondata di esuberi.
«La strategia di corso Marconi era nell?aria: scaricare sul sociale gli addetti di troppo. Le teste d?uovo della Fondazione Agnelli lo teorizzavano nei convegni», ricorda Novarino.
Rottamare uomini: alle auto si sarebbe pensato due anni dopo.
Giampaolo Cerri
Più dell?economia temo gli egoismi di Marco Revelli
Il sociologo della grande fabbrica analizza il declino della fiat e lancia un allarme. «Torino si è incattivita.La città sta smarrendo la sua vocazione»
Torino si fa più dura. E insieme più leggera. Può apparire un paradosso, ma è così. La città sembra farsi tanto più dura, impietosa, chiusa, quanto più si fa leggera, rarefatta, debole. Non è un?opinione, lo dice la cronaca. Quella che sta sulle prime pagine dei giornali, e quella che invece si cela tra le pieghe delle pagine interne, della cronaca cittadina.
Quanto Torino sia in crisi, lo urlano tutti i tg: la Fiat, l?architrave metallica su cui la città è stata costruita e riplasmata nel corso di tutto l?ultimo secolo, oscilla e cade. Anzi, per certi versi è già caduta: ha perduto, negli ultimi due decenni più di 100mila ?posti di lavoro? (si chiamano così nel linguaggio impersonale dell?economia: 100mila uomini e donne in carne e ossa ne sono stati estromessi), l?equivalente della popolazione di una città di medie dimensioni, diciamo di un capoluogo di provincia. I suoi stabilimenti si sono a poco a poco desertificati, rarefatti, densi di uomini e di cose com?erano una volta, con la gente che lavorava ?gomito a gomito?, le catene di montaggio affollate, i fiumi umani che uscivano dai cancelli, e ora avari di uomini e di vita (da quasi 60mila dipendenti ieri, a poco più di 20mila oggi, Mirafiori; da 18mila a zero, Rivalta; chiusi Lingotto, Teksid, Fiat Centro, via Cigna, Grandi motori?). Presenze un po? spettrali in un paesaggio urbano ormai ?pieno di vuoti? (sono 5 milioni di metri quadri le aree dismesse, grandi buchi neri pieni di macerie).
Quanto Torino si sia incattivita, invece, resta un non detto, ricostruibile solo per indizi. Ma gli indizi non mancano. È di qualche settimana fa l?episodio di tre nomadi presi a revolverate in una stradina periferica della città, in una zona di orti abusivi dove ?pacifici? pensionati, quelli appunto dichiarati prematuramente ?inutili? nel grande processo di deindustrializzazione della città, riempiono le ore vuote addomesticando la natura. Uno è morto, un altro è stato ferito, poi il silenzio ha ricoperto tutto. È dei giorni scorsi la notizia che alcune circoscrizioni cittadine hanno incominciato a far gara per ottenere la rilocalizzazione del Centro di permanenza provvisoria per immigrati extracomunitari (così lo chiama la legge Turco-Napolitano, altri li chiamano lager) rifiutato dagli abitanti di corso Brunelleschi. I quali non contestavano certo il Centro per ragioni umanitarie, o per sensibilità giuridica ai diritti universali dell?uomo, ma perché la presenza in zona di quegli stranieri degradava il quartiere, abbassava il valore delle aree, disturbava insomma. Mentre chi lo rivendicava, in particolare la circoscrizione più disagiata dal punto di vista migratorio, Porta Palazzo, non lo faceva al contrario per spirito di servizio ma per utilità: perché, questa la motivazione dichiarata, la vista dei detenuti (lo spettacolo ostentato della pena) avrebbe dissuaso i loro simili ancora in libertà dalla tentazione di delinquere. Perché, in sostanza, l?immagine del campo di detenzione avrebbe costituito un valido deterrente anche per i (provvisori) non detenuti. Il tutto con la benedizione compiaciuta del sindaco, noto per la mano di velluto con la proprietà Fiat, che sembra cogliere in tutto ciò un rafforzamento dello spirito civico.
Resta da capire il nesso che lega i due fenomeni: l?indebolimento (dell?economia) e l?indurimento (delle coscienze). L?affievolirsi della funzione produttiva e l?irrigidirsi della disponibilità umana. L?aumento dell?insicurezza e della paura, e l?incrudelirsi dell?egoismo. Certo è che la città che sta smarrendo la sua vocazione (fondata un tempo sulla centralità assorbente del lavoro), smarrisce parallelamente la sua umanità (fondata sull?appartenenza sociale e sul conflitto industriale).
Per ripartire, bisognerà misurarsi con questo legame spezzato tra lavoro e umanità. Senza tabù né imbarazzi, per immaginare una socialità capace di andare oltre il lavoro e il dispotismo dell?economia. E di sopravvivere alle incerte vicende di entrambi.
E ora via dagli Agnelli (di Ettore Colombo)
Mercedes Bresso, presidente della Provincia di Torino, si definisce «una riformista». Alla guida di una giunta di centrosinistra, riconfermata con il 55% dei voti, la Bresso lavora da un lato a stretto contatto con i problemi sociali ed economici di Torino, guidata dal diessino Sergio Chiamparino, e dall?altro dialoga con la giunta Ghigo (Polo) del Piemonte. Senza dire del suo rapporto con le associazioni di solidarietà. Un bel riformismo, il suo. Di una che dice: «La politica è fredda. Abbiamo bisogno di gente calda».
La crisi della Fiat è la crisi di Torino?
Guardi, preoccupati siamo preoccupati, ma non ci strappiamo i capelli. La Fiat conta per il 20% all?interno del totale delle attività produttive della Provincia. Comunque, ci siamo mossi su diversi fronti, a partire da quello più immediato che riguarda il piano crisi presentato dalla Fiat. Azienda che parla di 1.800 lavoratori in esubero (sui 3mila in tutt?Italia) per il distretto industriale torinese. Che salgono a 10mila se, dicono i sindacati, contiamo l?indotto. E proprio l?indotto mi sembra il punto: la Fiat non è solo produzione auto, stabilimento di Mirafiori, ma anche tante altre cose, comprese le capacità dei lavoratori, che non è giusto siano prepensionati. Hanno competenze che vanno salvaguardate, ad esempio attraverso i contratti di solidarietà e scelte coraggiose, come quelle dell?auto pulita. Torino deve sganciarsi dai destini degli Agnelli. Comunque, il ministro Maroni affiderà proprio alla Provincia il compito di monitorare la situazione dell?occupazione nell?area. Intelligenze come quella di Luciano Gallino ci saranno di grande aiuto.
Lei è una dei politici più amati dai no global, ma si definisce riformista?
A dire la verità, io a Porto Alegre non ero tra gli ospiti, ma tra gli organizzatori in qualità di presidente della Fmcu, la Federazione mondiale delle città unite, l?organizzazione che raccoglie e coordina tutti gli enti locali che lavorano per introdurre i principi della cooperazione decentrata e del bilancio partecipato. Inoltre, coordino il lavoro del Forum delle città per l?inclusione sociale, rete permanente di coordinamento nata all?interno della Fmcu. I temi della globalizzazione precipitano e arrivano al pettine nelle città, come nel caso Fiat. L?urbanizzazione selvaggia, la speculazione edilizia, l?emigrazione e l?immigrazione, le povertà sono fenomeni che vanno governati aiutando chi vive nelle realtà del Sud del mondo e chi vive qui, nel Nord ricco e industrializzato. L?economia, più che di mercato, mi piacerebbe fosse ?aperta?, come scrivevo in un saggio assieme al mio compagno economista anni fa, prima ancora di Seattle. Libro che non ho mai finito. Per le incombenze e le pastoie della politica. A me spettano i progetti di cooperazione, in un?ottica riformista e pragmatica. Ai ragazzi dei movimenti spetta dare gambe e soprattutto cuore e forza a tali politiche.
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