“Ho fondato la mia
impresa come forma di
protesta. Volevo dimostrare che avevamo un’alternativa al carbone che fosse
sostenibile per l’
ambiente. L’unico modo per farlo era presentare una soluzione concreta. Col tempo poi abbiamo dimostrato che l’
energia solare era anche un modo economico per aiutare le persone ad uscire dalla
povertà. ” E’ così che
Harish Hande, racconta l’inizio della sua
avventura imprenditoriale. Con la sua
azienda Selco, Hande ha reso accessibile l’
elettricità in oltre
1 milione di case nelle zone più povere dell’India. A Milano in occasione dell’incontro dell’
advisory board di
Opes Impact Fund, il fondo d’investimento ad alto impatto sociale di cui è membro, l’abbiamo incontrato nella redazione di Vita, dove ci ha spiegato come ha fatto a creare quello che qualcuno ha definito il più riuscito caso di social business al mondo.
Come è nata l’idea di Selco?
In realtà è iniziato tutto in Repubblica Dominicana nel 1991. Ero lì per fare ricerca, all’epoca stavo svolgendo un dottorato alla Lowell University e in Repubblica Dominicana ho studiato l’approccio decentralizzato all’energia solare. Mi interessava il fatto che potesse essere un modo per rendere l’elettricità accessibile nelle zone più povere del Paese. Per fare questo però era importante che capissi bene le dinamiche sociali ed economiche che vi erano dietro. Volevo capire cosa significasse davvero vivere senza elettricità e partire proprio dal mio Paese, così ho chiesto al mio relatore di tornare in India. Quando si lavora sulle soluzioni è fondamentale capire bene quali siano davvero i problemi, invece di cercare di adattare i problemi alle soluzioni che pensiamo possano funzionare secondo noi. Provare a sviluppare una nuova tecnologia senza considerare l’ecosistema in cui va ad inserirsi non ha senso. E' così che ho iniziato a lavorare all'idea di Selco.
Come avete fatto a trovare il capitale iniziale per Selco?
Abbiamo trovato
investitori privati disposti ad investire nella nostra impresa, purtroppo però all’epoca non avevo alcuna idea di che cosa significasse gestire un’azienda. Per i primi quattro anni non abbiamo avuto problemi ma poi la differenza di visione e di obiettivi si è fatta sentire e abbiamo capito che quelli non erano gli investitori giusti per noi. Non rispettavano il fatto che ci volesse tempo per lo
sviluppo dei processi e non capivano fino in fondo il valore della creazione di un sistema
egualitario per fornire servizi alle fasce
più povere della popolazione. Abbiamo imparato molto da quell’esperienza. Oggi i nostri investitori sono due fondazioni,
Lemelson Foundation e
Good Energies Foundation, e
E+Co, un’
organizzazione statunitense che si occupa di investimenti energetici nei
paesi in via di sviluppo. Gli investitori detengono rispettivamente il
33%, il
47% e il
19% di Selco. Il management ha mantenuto solo l’
1% dell’azienda. Nessun componente dei vertici aziendali però ha mantenuto delle quote, nemmeno io che sono
fondatore e
managing director. Essendo il fine dell’azienda sociale e volendo costruire un rapporto di massima trasparenza con i nostri clienti, abbiamo ritenuto che questa fosse la decisione migliore. Abbiamo stipulato un accordo estremamente chiaro con gli
investitori, il cui operato deve essere valutato dal management stesso ed è il
management che deve assicurare che la missione dell’azienda venga rispettata, per questo ha l’ultima parola sulle decisioni strategiche ed operative dell’impresa. In questo modo siamo riusciti ad assicurare che gli
obiettivi sociali rimangano sempre una priorità, per noi e per i nostri
investitori. Il presupposto fondamentale perché un accordo di questo tipo funzioni è la
fiducia. Abbiamo trovato investitori che sono perfettamente allineati con la mission di Selco e con i suoi obiettivi e che sono diventati a tutti gli effetti,
partner della nostra azienda.
Come membro dell’advisory board di Opes Impact Fund, ha la possibilità di analizzare l’imprenditoria sociale, anche dal punto di vista degli investitori. Quali sono le sfide più grandi con cui si deve misurare chi investe nel sociale?
L’investimento sociale implica un cambio di prospettiva in cui lo share value non può più essere il solo metro di valutazione. Bisogna considerare anche il valore dei processi innescati dall’investimento, capire se è davvero in grado di proporre delle soluzioni sostenibili, sia dal punto di vista economico, che sociale e ambientale e considerarne anche il grado di scalabilità. Quando mi è stato chiesto di entrare a far parte di Opes, ho accettato spinto soprattutto da un senso di frustrazione e dalla voglia di cambiare le cose. Si parla spesso di imprenditori sociali che hanno fallito, ma non si parla mai di investitori sociali che hanno fallito. Spesso vedo una differenza drammatica tra gli obiettivi e le aspettative degli imprenditori e quelle degli investitori. Credo davvero che sia necessario un cambiamento culturale. Gli investitori devono essere considerati parte integrante dell’azienda, possono giocare un ruolo determinante per il suo successo.
Ha visitato l’Italia per qualche giorno. Secondo lei quali sono gli ingredienti necessari per creare un ecosistema che sia davvero favorevole all’impresa sociale nel nostro paese?
Si tratta di un tema complesso ma credo che l’aspetto più importante sia educare i più giovani a sviluppare una sensibilità rispetto all’impatto sociale dell’impresa. Penso sarebbe molto utile inserire l’imprenditoria sociale come materia già alle scuole superiori, magari in quelle con un indirizzo tecnico. Sarebbe utile dare ai più giovani gli strumenti per capire le basi dell’economia e per capire l’impatto che l’impresa può avere sulla vita di tutti. E’ negli anni delle superiori che le persone formano le proprie opinioni. Magari non tutti gli studenti diventeranno imprenditori sociali, però saranno educati a questo modello e porteranno con sé questa sensibilità nel campo in cui poi andranno a lavorare. Educare i ragazzi più giovani al social business non è solo un modo per dare loro competenze concrete in campo economico, è anche un modo per far capire che, lavorando si possono davvero cambiare le cose. E’ un modo per educarli al cambiamento e anche alla speranza.
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.