Cultura
Hannah, un pensiero senza patria
I saggi di Elisabeth Young-Bruehl e Julia Kristeva
«È come se determinate persone si trovassero nella loro propria vita talmente esposte da poter essere paragonate nello stesso tempo a punti d?incrocio e a oggettivazioni concrete ?della? vita». Quando scrive queste righe, Hannah Arendt ha 24 anni. Forse non è un caso che oggi, a cento anni dalla sua nascita (il 14 ottobre 2006 ad Hannover) e a trent?anni dalla morte (nel 1975 a New York), esse descrivano magistralmente anche il suo complesso itinerario personale, un itinerario che è un punto di incrocio vivente e pensante di tutti i nodi del XX secolo e anche del secolo che abbiamo da poco cominciato. Il centenario che stiamo celebrando offre alla lettura due biografie che permettono un viaggio appassionato nel pensiero e nella biografia della filosofa. La biografia antologica e intelligente di Julia Kristeva (Hannah Arendt. La vita, le parole, Donzelli, euro 23), che in questo libro abbandona i tic dello strutturalismo per entrar dentro la vita e le parole della Arendt, e quella, minuziosa e completissima, di Elisabeth Young-Bruehl (Hannah Arendt, Bollati Boringhieri, 16 euro)che fu sua allieva alla New School for Social Research di New York.
Il viaggio che i due libri promettono è davvero unico e pieno di sorprese e va dalla tesi di Hannah, discussa il 28 novembre 1928 su Il concetto d?amore in Sant?Agostino (il suo speech è riproposto dalla Young-Bruehl) all?articolo ammirato su Papa Giovanni XXIII e scritto in occasione dei suoi funerali nel 1963, in cui la Arendt lo definisce «spirito quasi voltairiano».
In mezzo, un?opera straordinaria colta nel suo farsi, a Berlino, a Parigi, a New York, l?opera di un?apolide (lo sarà propriamente e come status giuridico – e perciò priva di diritti politici – per 18 anni)) che lei stessa definisce un?opera in cui si raccontano amicizie e biografie. «La principale caratteristica di questa vita specificamente umana è di essere sempre piena di eventi che in definitiva si possono raccontare come una storia, una biografia», scrive. E ancora citando la Dinensen, «tutti i dolori possono essere sopportati se vengono messi in racconto».
Ecco, il segreto di «un pensiero appassionato, nel quale pensare ed esser-vivo divengono tutt?uno», un pensiero che perciò impressiona e così spesso dà scandalo, dalla discussione di tesi sino al famosissimo La banalità del male, scritto nel 1961 dopo aver seguito le 120 sedute del processo Eichmann come inviata a Gerusalemme del settimanale New Yorker. Un?opera che perciò smonta ogni ismo in cui si imbatte (collettivismo, nazismo, comunismo, sionismo) e ogni ideologia foss?anche l?ideologia dei diritti umani.
Alla Arendt interessa indagare sulla possibilità di un legame plurale che sappia unire gli uomini e il tema della vita come bene ultimo da cui è sempre possibile ripartire dopo ogni sperdimento e ogni desolazione, dopo ogni svuotamento di memoria.
Scrive: «Il fatto che l?uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l?inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. Di questo qualcuno che è unico si può fondatamente dire che prima di lui non c?era nessuno. Se l?azione come cominciamento corrisponde al fatto della nascita, se questa è la realizzazione della condizione umana della natalità, allora il discorso corrisponde al fatto della distinzione, ed è la realizzazione della condizione umana della pluralità, cioè del vivere come distinto e unico essere tra uguali», (da Vita Activa: la condizione umana).
Insomma, due libri su cui val la pena perderci le notti.
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