Lo so è un blog che dovrebbe parlare di musica. Ma oggi ho avuto una discussione tra colleghi e ho deciso di parlare dell'altra mia grande passione: la cucina. Mi sono comunque assicurato di lasciare una nota musicale in fondo al post.
Eravamo una società del lusso per pochi, dove certe cose se le poteva permettere solo qualcuno. Poi sono arrivati gli hamburger gourmet, la linea Deluxe del Lidl e le patatine San Carlo benedette da Carlo Cracco. È siamo entrati nell’era del «proletarian chic”, del barbone di classe.
Un tempo, alberghi top di gamma, ristoranti stellati, spa d’elite, yacht chilometrici erano tutte questioni appannaggio dei ricchi. Il lusso era, da sempre, riservato ai ricchi. Solo qualche volta capitava che questo Olimpo decidesse di abbassarsi per rendersi accessibile alla plebe. Il maggior traghettatore di alto lusso verso il basso reddito è stato Groupon, il sito internet che offre prezzi scontati su qualsiasi prodotto di consumo. Grazie a Groupon, per esempio, un medio contribuente qualsiasi poteva immaginare di sedersi al tavolo di un ristorante stellato per godersi un menù degustazione a 99 euro per due persone invece che ai 300 del prezzo pieno.
Ora assistiamo al fenomeno esattamente contrario rispetto al vero lusso che occasionalmente «si abbassa» verso la massa. È appunto il «proletarian chic», anche detto «griffismo per morti di fame». Una novità che si è generata grazie a diversi fenomeni complementari: la ricerca dei marchi a basso costo di un’esclusività di facciata e la certificazione di lusso di ciò che lusso non è.
Ma andiamo con ordine.
I luoghi di approvvigionamento tradizionalmente molto amati dai poco abbienti hanno costruito splendidi imperi economici pur servendo, McDonald’s per esempio, panini con hamburger già a partire da 1 euro (è nel menu Salvaeuro). Tuttavia, anche questi prodi paladini dei diritti dei poveri in canna sono stati attirati dalle sirene d’Ulisse del lusso e del prodotto di alta qualità. Ecco, quindi, improvvisamente, comparire da McDonald’s il menu di Gualtiero Marchesi; il panino con l’astice canadese McLobster, quello col burger di carne angus McAngus e quello col burger di carne angus Supreme, con pane cotto su pietra e provolone.
Ma non c’è solo «Mac» tra gli esercenti che hanno sempre accolto una clientela dal portafogli leggero per non dire vuoto, additati da molti di vendere spazzatura, che ora servono anche prodotti griffati. La linea Deluxe di Lidl è un’altra pietra miliare del «proletarian chic». Una volta, chi faceva la spesa al cosiddetto discount era un contestatore del logo, o un a-ideologico indifferente alle marche. Poi, accanto alle tradizionali parole chiave del Lidl come «Ribassi», «Prezzi ribassati», «Sottoprezzi», ecco comparire la seducente e sofisticata linea Deluxe. Salmoni marinati con ingredienti gourmet, formaggi francesi come se piovessero vaches et chèvres (mucche e capre), trote iridee e storioni bianchi affumicati, mieli con pezzi di favo (il top per il mangiatore di miele), antipasti greci, macinini in ceramica con sali, anzi, pardon, con «quattro raffinatissime selezioni di sali d’élite di qualità sopraffina» (dell’Himalaya, Alpino, Persiano Blu e del Nevada), torroni morbidi a forma di sigaro, lunette ripiene di scampi e gamberi, tiramisù al lampone, vinsanti e set per fondute. Il tutto a prezzi nemmeno più alti dell’abituale sottocosto: i ravioli ripieni di bottarga costano soltanto 1,29 euro. Lo slogan è: «Non serve molto per concedersi il lusso». Con questa sentenza il legame obbligato tra lusso e alto costo è stato, invece, definitivamente annientato.
Ma solo nella comunicazione. Chi compra i vini francesi al Lidl continua naturalmente a non potersi permettere uno stellato Michelin o un albergo 5 stelle.
Attenzione perché non è solo una questione realtiva al food. La missione di elevare di status i propri clienti è ormai di moda presso tutti gli stores per diversamente ricchi, cioè non ricchi. All’Ikea il design fa sempre più capolino e alcuni pezzi non stonerebbero accanto a quelli di Kartell. La famosa catena di abbigliamento H&M dopo aver lanciato a New York una collezione in edizione limitata realizzata in collaborazione con la marca francese di alta moda Balmain, ha recentamente lanciato anche una linea disegnata nientepopodimenoche da David Beckam.
D’altra parte però c’è anche l’altra questione: certificare lusso quello che lusso non è. In questo ambito uno degli esempi più lampanti è il fenomeno dell’hamburger gourmet.
Si prende una tradizione consolidata come quella del panino, simbolo di basso costo e velocità. Per altro nella sua accezione americana, quindi junk, possibilmente supercondito e superfarcito. E la si eleva ad alta cucina. Il punto però è: cosa contraddisitingue l’alta cucina, la cucina gourmet, dal resto? La qualità dei prodotti e la sapienza nel saperli trattare e abbinare.
Ecco che si è creato il mostro e lo si è certificato di lusso. Nascono così decine di marchi di hamburger gourmet. C’è quello che trita il filetto di Angus argentino e quello che trita i migliori tagli di chianina italiana. Qualcosa che fino a ieri sarebbe stato considerato, anche solo da chiunque abbia fatto una spesa in vita sua, un delitto punibile con il carcere diventa alta cucina.
Chiariamolo anche se non è il cuore del problema: tritare carni pregiate è un delitto. Come lo è mettere in un hamburger affettati pregiati o formaggi rinomati. I motivi sono tanti, tutti banali e intuitivi. In primo luogo non si usano ingredienti nobili per fare piatti poveri. Non si sprecano prodotti d’eccellenza per rovinarli con lavorazioni per cui non sono adatti. E poi in un contesto con senape, ketchup, maionese (spesso compresenti) cipolle, bacon, formaggio filante e compagnia cantante, come diavolo si fa a distinguere un filetto da uno scarto? Semplice: non si può.
Ma qual è l’obbiettivo di questa rivoluzione? Lo potremmo sintetizzare con Ettore Petrolini: «Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. Hanno poco, ma sono in tanti».
Quanto costa in media un hamburger gourmet? Si attesta intorno ai 15 euro. Che abbinando le immancabili patate fritte e una bibita arriva a toccare i 25 euro. In sostanza siamo ancora nel range dei costi inclusivi, seppur smodati se si considera per che prodotto si sta pagando quella cifra. Ma venendo venduto come prodotto esclusivo e dopo un bel post su Instagram scopriamo il consumatore molto ben disposto a fare il sacrifico.
Ed è proprio il consumatore la parte più sconfortante: è contento. Si perché il “proletarian chic” non sa di esserlo. Pensa di essere ricco. Sia economicamente che culturalmente. È questo il vero danno. Siamo sempre più circondati da morti di fame come noi, ma sicuri di essere migliori e più competenti di noi, perché loro mangiano l’angus tritato, bevono vino francese a 3 euro e hanno la bacheca social piena di piatti gourmet.
La chiudo qui. Ma rilancio il monito dei Rage Against The Machine: Know your enemy!
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