Mondo

Haiti, l’altra faccia

di Joshua Massarenti

Un popolo che ha mostrato un coraggio straordinario. Una tragedia affrontata con una dignità che i media non hanno saputo raccontare. Così un grande giornalista haitiano ricostruisce i giorni del terremoto. E spiega come il suo Paese potrà rimettersi in piedi
Del sisma di Haiti si è detto tanto. Forse tutto o quasi. Le prime, devastanti scosse avvenute venerdì 12 gennaio alle ore 16.53, ora di Haiti. Sono bastati pochi minuti per precipitare Port-au-Prince in un vortice di desolazione e stupore. Di fronte al crollo delle principali infrastrutture – palazzo presidenziale compreso-, i sopravvissuti hanno fatto in fretta a condividere la loro sorte assieme ai morti. Sulle strade e negli ospedali e dispensari rimasti in piedi. Dopo un primo black out durato 24 ore, i network televisivi internazionali hanno ripreso il controllo della situazione subissando i telespettatori di immagini tragiche. In tutto il mondo, Stati e cittadini hanno risposto alla grande. Perché Haiti, sussurrano alcuni intellettuali, trasuda maledizione da tutti i pori. Una maledizione affascinante si sente in giro, ma da cui è meglio stare alla larga. Perché fuorviante. «Un sisma non ha nulla a che fare con la maledizione», ha ripetuto fino allo sfinimento il grande romanziere haitiano, Dany Laferrière. Un suo connazionale, che di mestiere fa il giornalista a Bruxelles, lo segue a ruota, rilasciando a Vita questa intervista impressionante per densità e dignità. Direttore del Courier ACP-UE, Hegel Goutier, ex portavoce del Segretariato dei Paesi ACP (Africa-Caraibi-Pacifico), fa parte di quella classe intellettuale haitiana costretta a scappare da un Paese pieno di ferite aperte, ma sempre in grado di risollevarsi quando meno lo si aspetta. «Sarà così anche dopo questa tragedia».
Vita: Venerdì 12 gennaio 2010, ore 16.53. Ad Haiti la terra trema. Che cosa ricorda?
Hegel Goutier: Appena ho appreso la notizia della catastrofe, mi sono chiesto in che modo avrei potuto rendermi utile. Ora, oltre all’inpossibilità intervenire fisicamente in Haiti, l’unica cosa che sono in grado di fare è comunicare. È il mio mestiere. Molti haitiani residenti in Belgio non riuscivano a entrare in contatto con i loro parenti e conoscenti. Io stesso non avevo notizia dei miei familiari. Purtroppo, sono in momenti come questi che il messaggio va diffuso, se non altro per placare le angosce e le paure della gente. È stato il primo, grande ostacolo con cui ho dovuto confrontarmi. Ma ognuno cerca di sollevare le macerie come può.
Vita: La mobilitazione dei mass media e della comunità internazionale ha posto Haiti al centro dell’attenzione. Nel rullo compressore di immagini e commenti pubblicati e mandati in onda, emerge l’immagine di un Paese maledetto. È un giudizio che condivide?
Goutier: In un’intervista rilasciata a Le Monde pochi giorni fa, il mio amico e romanziere haitiano Dany Laferrière ha definito questa maledizione «una parola insultante, che sottintende che Haiti ha fatto qualcosa di male e che lo sta pagando». Quello che è accaduto a Port-au-Prince è un fatto sismologico eccezionale che nulla a che fare con la storia del suo popolo. Anzi, qualcosa di positivo questo terremoto ce lo ha rivelato: il coraggio straordinario degli haitiani e la dignità con la quale stanno affrontando le difficoltà immense in cui si sono ritrovati.
Vita: Eppure si parla di gang ad ogni angolo di strada, dei rischi che i volontari giunti dall’estero corrono per salvare la gente…
Goutier: Non nego la violenza. C’era prima del terremoto, figuriamoci dopo. Ma continuare a parlare di un Paese perennamente in preda al caos è fuoriluogo, e non serve a niente. Seguendo questa logica, tanto vale non mandarci soldi! Pochi mesi fa, il rappresentante delle Nazioni Unite in Haiti – rimasto vittima del sisma – è stato di passaggio a Bruxelles per incontrare membri della Commissione europea. Allora aveva dichiarato di non aver mai visto un Paese registrare così tanti progressi in così poco tempo. Oggi purtroppo sono in pochi a ricordarselo. Così come pochi ricordano il lavoro straordinario che l’ex primo ministro, Michèle Duvivier Pierre-Louis ha svolto durante il suo breve mandato (luglio 2008-ottobre 2009, ndr). Non a caso lei è stata scelta dalla Commissione Ue per ricevere a Stoccolma il premio più importante del giornalismo europeo.
Vita: Ma le ombre non si sono mica dissolte dall’oggi all’indomani…
Goutier: Haiti è un Paese che vuole sempre essere agli estremi. A volte per il meglio, se no per il peggio. Le vie di mezzo sono rare. La sua storia è straordinaria: ci sono eventi fuori dal comune, come la nostra vittoria sulla Francia nel 1804. Ve ne sono altri meno noti, penso al 1946 e al nostro maggio 68 ante litteram. Estimé Dumassais fu eletto presidente dando il via a un periodo particolarmente fertile e innovativo. I più grandi intellettuali europei sbarcarono nel nostro Paese: ricordo Jean-Paul Sartre, Malraux, perfino Anaïs Nin ci seguiva da vicino. Siamo stati uno dei primi Paesi al mondo ad autorizzare il partito comunista, fra i primi a fondare una facoltà di etnologia. Questo periodo, che definirei “âge des lumières” è avvenuto poco dopo l’occupazione americana (1915-34, ndr), e non è un caso: Haiti aveva fame di progresso e di libertà. Nel 1949 ci fu addirittura un’esposizione internazionale a Port-au-Prince che festeggiava in maniera brillante il suo bicentenario. Questa epoca è durata quattro anni, dopo di che Dumassais si è ammalato, e un governo militare è arrivato al potere.
Vita: C’è poi l’era Duvalier, uno dei periodi più bui della storia haitiana…
Goutier: Tra François Duvalier e il figlio Jean-Claude, abbiamo vissuto anni durissimi. Una dittatura che ha raso al suolo quanto di buono Haiti era riuscita a fare nel secondo dopoguerra. Basta un esempio: oggi Cité Soleil è la più grande bidonville del Paese, ma 40 anni fa accoglieva un centro culturale tra i più prestigiosi dell’isola. Con l’arrivo di Jean-Bertrand Aristide, nel 1990, c’è stata una rinascita. Aveva creato dinamismo nella società.


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