Quando ho saputo della morte di Habtamu Scacchi ho avuto subito davanti agli occhi il video-appello che i suoi genitori avevano lanciato l’anno scorso, a seguito della prima fuga del ragazzo. Mi avevano colpito per la straordinaria dignità dell’atteggiamento, solo le mani intrecciate, quasi tentassero in ogni modo di non far tracimare l’angoscia e il senso di impotenza.
Oggi non riesco nemmeno a immaginare il loro dolore, invece.
Riesco solo a chiedermi perché, pensando anche a un altro caso di suicidio che avevo seguito alcuni anni fa, con impressionanti somiglianze. Un altro ragazzo venuto da lontano, in quel caso indiano, anche lui amatissimo, seguito, ben accolto.
“E allora perché?”, ho domandato al telefono a Graziella Teti, mamma e responsabile adozioni del più storico ente italiano, il Ciai. “E’ difficile parlare”, mi dice con la voce incrinata. “Sono come dei bellissimi fiori recisi, questi ragazzi. Possono avere un bel vaso, acqua sempre fresca, polverine per nutrirsi. Ma hanno bisogno delle radici, per vivere. La riconnessione e la riconciliazione con il passato sono passaggi necessari ma anche pesanti, molto pesanti. Tutto l’amore e la voglia di costruire della famiglia possono non bastare, soprattutto quando l’adottato è preadolescente”.
“Pensa a che periodo è l’adolescenza”, prosegue Graziella. “Se dentro a quella grande turbolenza esistenziale, che tutti i ragazzi vivono, metti anche la necessità disperata di capire chi sei e a chi appartieni, bisogna ammettere che i nostri figli hanno un carico molto più grande da portare”.
Sulla vicenda di Habtamu non si può dire altro, se non stringersi al dolore della famiglia.
Sulle adozioni, invece, c’è una riflessione che vale la pena fare. “Prima di tutto, ammettere che non è necessariamente la panacea di tutti i mali o lo strumento ideale per tutti”, sottolinea Graziella Teti. “Proprio perché oggi, sempre più, facciamo adozioni ad altissimo rischio di fallimento, con minori sempre più grandi e con dolorose esperienze sulle spalle, è fondamentale ascoltare la loro voce. E’ fondamentale capire, molto prima di un abbinamento, se quel bambino ha le risorse per affrontare un cambiamento radicale di vita. Ci è capitato e ci capita, come ente, di rinunciare ad alcune adozioni per trovare soluzioni alternative di sostegno nel paese d’appartenenza”.
Il Ciai è stato pioniere dei viaggi verso le origini. “Quanto sono necessari?”, chiedo. Graziella mi affida un aneddoto personale, legato alla prima volta in cui è tornata in Vietnam con sua figlia. “Alcune persone del suo villaggio la riconoscevano, la salutavano per nome. Non riesco a dimenticare la felicità del suo sguardo, quasi avesse ricevuto una conferma che aspettava: ecco, allora sono vietnamita! Il viaggio verso le origini è questo: rimettere a posto dei tasselli, magari non tutti, ma sicuramente tutti quelli che servono a capire che è necessario tenere aperto un dialogo con il tuo passato. E’ così che capisci che l’adozione non è stata uno strappo, ma solo un passaggio di testimone”.
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