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Ha ancora senso parlare di “gioventù” e “generazioni”?

«La gioventù non esiste», ha spiegato Papa Francesco. Al contrario, «esistono i giovani con le loro storie». Nella Domenica delle Palme, il Pontefice ha esortato: «non fatevi manipolare e anestetizzare, gridate!». Le parole di Francesco riportano d'attualità un dibattito a cui abbiamo dedicato il numero di gennaio del nostro magazine: ha senso incasellare ragazze e ragazzi in etichette sociologiche che ne soffocano i vissuti individuali e comuni?

di Marco Dotti

Millennials, bamboccioni, sfiorati, sdraiati, digital natives, generazione A, generazione X, generazione Z, generazione app, generazione what, neets: mai una generazione ha avuto tante etichette. Mai tante parole vuote, per indicare una cosa sola: i giovani. Sfuggente ma suggestiva, la categoria “giovani” è arrivata al centro del dibattito e dell’attenzione pubblica nel secondo dopoguerra, con la baby boomers generation, ragazze e ragazzi nati tra il 1946 e il 1964, e da lì ha attraversato le generazioni.

Verso dove?

Quante generazioni incrociamo nella nostra vita? Quante ne attraversiamo? Soprattutto: che cos’è una generazione? In termini anagrafici, le generazioni cambiano di continuo: una si succede all'altra e là dove il flusso di individui non si interrompe basta ad assicurare il rinnovamento anagrafico di una società. Si conta che, a ogni volgere secolo, si succedano al massimo tre generazioni. Ma in Italia, il saldo naturale è negativo e mette a repentaglio anche questo passaggio che avevamo dato per scontato: secondo il report dell'Istat “Natalità e fecondità della popolazione residente” dal 2008 al 2016 le nascite sono infatti diminuite di oltre 100 mila unità. E non si prevedono inversioni di tendenza.

La demografia non è tutto e a questa denotazione, puramente anagrafica, ne va affiancata un'altra più marcatamente culturale: ci sono generazioni che si connotano per un tratto comune. Questo tratto comune ha un nome: esperienza. C’è un evento, talvolta un trauma (una guerra, un terremoto, una crisi economica) repentino e una risposta collettiva che segnano per sempre, in senso morale e affettivo, le vite che ne sono parte. È dalle grandi esperienze di senso che nascono le comunità e un’appartenenza che unisce più di ogni frattura.

Ciò che distingue una generazione dall’altra non è il mero succedersi nel tempo ma l’aver vissuto esperienze condivise.

Come si può essere vivi e non interrogarsi sulle storie di cui ci serviamo per cucire questo posto che chiamiamo mondo? Senza storie, il nostro universo non è che pietre e lava e tenebra

Douglas Coupland,


Parliamo allora – e le etichette, qui, hanno contorni e, soprattutto, un senso – della generazione della Resistenza e persino di generazione Erasmus. A tenere unite queste generazioni è un’esperienza, qualcosa che con termine rischioso e antico potremmo chiamare un destino. Proprio su questo secondo senso del termine “generazione” si registra una tendenza inversa e contro-intuitiva: se le generazioni anagrafiche sono in declino, quelle di senso sono in grande crescita.

Lo riscontriamo ogni giorno, sui temi “caldi” di questi anni dall’immigrazione all’accoglienza, dalla crisi occupazionale al volontariato. Non è un caso che da una ricerca condotta dall’Istituto Toniolo e promossa dal Centro Studi Misericordie Alfredo Merlini emerga come il 94% dei giovani che hanno fatto esperienze di volontariato risponde di voler continuare il percorso.

GIOVANI: PRONTI, VIA ► IL NUMERO DI VITA DI GENNAIO DEDICATO ALLE GENERAZIONI

Poiché non esiste comunità se non c'è un'azione capace di un linguaggio autonomo, l’espressione “dare voce ai giovani” non può rimanere confinata fra le buone intenzioni o peggio ridursi a un parlare e parlarsi addosso. Per questo, quando arriva senza filtri, la voce delle generazioni sorprende. Da una recente indagine sugli 8000 oratori italiano, Nando Pagnoncelli (Ipsos) ha registrato che il 66% è motore di attività caritative e di volontariato molto richieste e seguite dai ragazzi.

Teen Age: giovani e diritti

In principio furono i teenagers, soggetto collettivo che, forte dell’età, la teen age compresa fra i 13 e i 18 anni, si affacciava – e fu la prima volta con questa determinazione – sulla scena del mondo.

Nel gennaio 1945, a guerra ancora in corso, il New York Times Magazine pubblicò un decalogo redatto da questi “nuovi giovani” che chiedevano una società senza discriminazioni e una partecipazione attiva nella cura del mondo. Una sorta di carta dei diritti che segnò un punto di svolta nella percezione e nell’autopercezione giovanile.

I “Teen Commandments” – il giornale ebbe gioco facile nel gioco sull’assonanza di “teen” e “ten”, dieci- venivano pensati per «andare incontro ai problemi dei giovani che crescono» e prevedevano, tra gli altri, «il diritto di dimenticare l’infanzia». E anche qui, il vecchio Benedetto Croce ci corre in aiuto. Due anni prima del «decalogo», dalle pagine della Critica avvertiva: attenti ai giovani che vogliono rimanere tali e non invecchiano. «Il loro unico diritto – scriveva – e dovere insieme, è, semplicemente, di cessare di esser giovani, di passare da adolescenti ad adulti».

Parole che sanno d’oggi. Perché se qualcosa si è inceppato, in questi anni, è stato proprio questo doppio passaggio soggettivo e intergenerazionale. È come se ci fossero generazioni senza eredi e eredi senza generazioni, ci spiega un altro filosofo, Remo Bodei, autore di Generazioni. Età della vita, età delle cose (Laterza, 2014).

Senza eredi

Il termine erede – osserva Bodei, che da anni insegna all’Università della California – traduce il latino heres che scaturirebbe dalla radice indoeuropea ghar, ossia “colui che prende”. Oppure, secondo un’altra ipotesi, dalla forma indebolita del greco cheros che significa “il diventato orfano”. «Non si danno generazioni senza eredi, ma non ci sono eredi senza un passaggio che prevede il distacco». Ma proprio l’incepparsi di questo passaggio “ereditario” costituisce, oggi, il problema di fondo di ogni discorso inter-generazionale.

Il professor Paolo Legrenzi è fra i più importanti psicologi cognitivi, dirige il Laboratorio di Economia Sperimentale dell'Università Ca' Foscari di Venezia e sta da tempo lavorando su questo snodo che ritiene cruciale. Il suo ultimo libro, edito dal Mulino, si intitola Perché gestiamo male i nostri risparmi e parla proprio di generazioni. «Credo sia il problema enorme», ci spiega Legrenzi, « tanto a livello sociale, quanto istituzionale perché se non si riusciamo a progettare in tempi brevissimi un passaggio generazionale i danni ricadranno sul welfare nel suo complesso». La prossima generazione, in Italia, «sarà la prima a non essere più ricca della precedente. Ma già oggi i più giovani anziché godere e beneficiare dei risparmi e delle fortune che la generazione precedente – i baby boomers – ha accumulato per il benessere della successiva, si stanno indebolendo».

In Italia, l’80% del risparmio è in mano a persone che hanno più di 70 anni e per questo, prosegue Legrenzi, che è attentissimo osservatore dei fenomeni economici, «il passaggio generazionale fatto bene è uno dei problemi più urgenti e rilevanti per il benessere delle persone che sono implicate in quel passaggio».

O si riattiva questo scambio virtuoso, mettendo in dialogo le generazioni, o tutto cade. «Il problema rischia di essere persino più grave del mero dato demografico», spiega a Vita l’antropologo David Le Breton, perché senza questo passaggio «a crollare è lo scenario di senso complessivo in cui inscriviamo le nostre vite».

Il passaggio, però, ci racconta Le Breton, non è unidirezionale: «il contatto fra età della vita arricchisce entrambi: chi dà, al contempo riceve, ma per i giovani questo attiene anche la costruzione di sé, la formazione della loro identità». Per questo i giovani «se ben stimolati amano dedicarsi alla cura dell’altro, perché è tramite l’altro che definiscono il sé».

Tra mezzi e fini

Ma i giovani italiani, oggi, rischiano di avere un’eccedenza di fini e una scarsità di mezzi mentre le generazioni anagraficamente più mature rischiano l’eccesso opposto: buoni mezzi a disposizione, ma scarsità di fini.

«Con grave danno per la vera ricchezza del nostro Paese», aggiunge Legrenzi. I dati gli danno ragione se dalla Banca d’Italia scopriamo che, dopo la crisi finanziaria globale del 2008, il reddito disponibile delle famiglie è tornato sui livelli della fine degli anni Ottanta. Tra i paesi avanzati, solo in Italia il reddito reale delle famiglie è diminuito negli ultimi vent’anni. I ricercatori sono concordi nel considerare che l’evoluzione crescente della disuguaglianza sociale si leghi, oltre a fattori strutturali del mondo del lavoro e del sistema economico, a questa stagnazione e persino regressione dei livelli di reddito famigliare.

L’eredità dei “nonni”, ci racconta un attento osservatore dell’economia quotidiana come Dario di Vico, «deve arrivare al momento giusto». Per un giovane, infatti, insiste di Vico che ne tratta anche nel suo ultimo lavoro (Al Paese dei disuguali, Egea, 2017) è «fondamentale poter usufruire dell'eredità quando sta ancora progettando il proprio itinerario di vita e quando maturano scelte chiave come la decisione di frequentare un costoso corso universitario, o quella di comprare un appartamento oppure la possibilità di dare vita ex novo a un'attività economica». È a questo punto che le generazioni si devono legare, interagendo e creando un ponte temporale ma anche un comune orizzonte di senso: «i nonni o i genitori possono intervenire just in time, come si dice nel lessico industriale, e non rimandare il trasferimento di denaro al post mortem quando probabilmente il destino dei figli/nipoti sarà stato già irrimediabilmente segnato in termini di eventuale disagio abitativo e di esclusione sociale e le velleità neo-imprenditoriali ormai pesantemente derubricate».

È d’accordo anche l'economista francese Thomas Piketty che, nei suoi studi sulla dinamica storica del capitalismo occidentale, ha notato come nel XIX si ereditava mediamente attorno ai trent’anni, mentre nel XXI si arriverà a ereditare ben oltre i cinquanta. Con il rischio di confondere il risparmio con la stagnazione e la prudenza con l’immobilità.

Assumersi il rischio

«Come si può essere vivi e non interrogarsi sulle storie di cui ci serviamo per cucire questo posto che chiamiamo mondo? Senza storie, il nostro universo non è che pietre e lava e tenebra»: è l’incipit di Generazione A di Douglas Coupland. Lo scrittore canadese è stato ed è fra i più sensibili nel cogliere i mutamenti giovanili. Fu lui, nel 1981, a coniare un’espressione che fece epoca: Generation X. Se la “Generazione X”, quella del punk, voleva distruggere il futuro, quella di oggi ne ha fame. E ha fame di storie che permettano di metabolizzare esperienze.

«Non si può cambiare la propria storia, ma si può cambiarne il senso e inscriverla in un’esperienza e l’esperienza esiste solo se narrata»: i giovani, ci racconta ancora David Le Breton, «hanno fame di senso e di esperienze condivise». Le capiamo in negativo, se pensiamo all’indice di inquientante “intruppamento” che i movimenti delle nuove destre riescono a ottenere, soprattutto nell’ambito della partecipazione legata alla scuola: 56mila voti (18mila nella sola Roma) e 200, tra rappresentanti d’istituto e consulte provinciali, eletti novembre scorso per Blocco Studentesco, il movimento scolastico di Casa Pound. C’è di che riflettere. Ma, di contro, c’è la grandissima richiesta che i giovani pongono al Terzo Settore. E anche su questo dobbiamo riflettere.

In una società della prestazione, che pretende di ridurre ogni relazione a semplici dinamiche di input-output e qualifica a prescindere tutti i giovani come “barbari” o “sdraiati” questi ragazzi lanciano una sfida. Evitare che questa richiesta di senso venga manipolata è il compito di cui una società civile che si voglia inclusiva e libera deve farsi carico.

Per scoprire, forse, come accadde negli anni Settanta al sociologo Paul Goodman, che anziché davanti a una gioventù assurda ci si trova al cospetto di giovani che si sono trovati loro malgrado a confrontarsi con l’assurdo. E ne sono usciti carichi di energia, intelligenza e speranza.

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