Volontariato

Guerra globale oppure difesa e sicurezza? La campagna “Un’altra difesa è possibile” in campagna elettorale

di Pasquale Pugliese


Meglio leggere, ancora una volta, le parole del generale dell’esercito italiano Fabio Mini, nel suo ultimo interessante lavoro Che guerra sarà (il Mulino, 2017), per comprendere appieno la gravità della situazione presente: “Più che nel passato, oggi è necessario tenere i governati in uno stato permanente di agitazione e paura. L’uso della forza non è più l’extrema ratio; non è neppure lo strumento ancillare della politica e della sicurezza: la guerra e la minaccia della guerra consentono di creare l’insicurezza e mantenerla a quel livello di parossismo necessario all’esercizio del potere”. E un centinaio di pagine più avanti chiosa così sull’immediato futuro: “Ogni tipo di guerra sarà sperimentato e combattuto e la loro sommatoria permetterà di realizzare l’immenso campo di battaglia del futuro dal quale le élite mondiali di politica e affari trarranno i profitti materiali e di potere. Soltanto con questo tipo di guerra globale il parossismo può essere tenuto ai massimi livelli e lo sviluppo tecnologico bellico ha senso e avvenire perché orientato sempre verso qualcosa che può e deve accadere.”

Probabilmente sono da ricercare in queste oneste parole di un generale di corpo d’armata – che raccontano con lucidità il totale asservimento dei governi alla logica della guerra – le ragioni di fondo per le quali il parlamento, prima di essere sciolto, ha trovato il modo di approvare in legge di bilancio l’aumento del 4% delle spese militari italiane per il 2018, portandole all’incredibile cifra di 25 miliardi di euro, ossia a 70 milioni al giorno – come denuncia l’Osservatorio sulle spese militari italiane – sottratte alle spese civili. E il governo italiano ha trovato il modo di imbarcare il Paese, per decreto, in una nuova – e altrimenti incomprensibile – missione militare, in Niger a rimorchio della Francia. Che si aggiunge alle altre 31 missioni militari, dall’Iraq all’Afghanistan, che continuano e che (ovviamente) non hanno pacificato nessun conflitto, ma in compenso hanno favorito il nascere del terrorismo e sperperato miliardi di euro in armamenti.

Non ha trovato tempo, invece, il parlamento non solo per discutere e approvare la proposta di legge di iniziativa popolare (e anche parlamentare) per la difesa civile, non armata e nonviolenta, promossa dalla campagna Un’altra difesa è possibile, ma neanche di dare corso alle audizioni delle Reti promotrici, peraltro già calendarizzate presso le Commissioni congiunte di Affari costituzionali e Difesa della Camera dei Deputati. E’ la solita questione delle priorità: la guerra e la minaccia della guerra sono funzionali al sistema militare-industriale – come spiega anche il generale Mini – mentre l’approntamento degli strumenti concreti per costruire pace, difesa e sicurezza con mezzi pacifici, proposti dalla campagna per la difesa civile non armata e nonviolenta, sono destabilizzanti. Perché efficaci.

Sulla costruzione della difesa nonviolenta siamo ormai in ritardo di almeno 50 anni, come spiegava Aldo Capitini già nel 1968, in un articolo su Azione nonviolenta, la rivista da lui fondata, dal titolo Difesa e nonviolenza: “perché intendere la difesa soltanto con le armi, come distruzione dei nemici? Il metodo nonviolento è in grado di organizzare nei più minuti particolari, una resistenza nonviolenta che finisce con essere una difesa ancora più risoluta e tenace di quella militare. Esiste una strategia della difesa nonviolenta, che è efficace, complessa, impegnante e speriamo che sia appresa dagli strateghi della difesa violenta (…) e rende evidente che l’assoluto che viene difeso non è tanto un territorio, quanto una patria universale, che è il rapporto amorevole e cooperativo tra tutti, una libertà e sviluppo dinamici che debbono valere per tutti”. In quell’anno di rivoluzioni sociali e politiche, Capitini prefigurava un vero e proprio salto di civiltà – il più rivoluzionario di tutti – che mettesse progressivamente la guerra fuori dalla storia. Anziché al centro di essa.

Cinquanta anno dopo – nonostante tutto – è necessario non perdersi d’animo e portare i temi del disarmo, della riconversione sociale delle spese militari, della riconversione civile dell’industria bellica, della costruzione della difesa civile non armata e nonviolenta, dell’educazione alla nonviolenza – ossia i temi della difesa, della sicurezza e della costruzione della pace – al centro del confronto politico della campagna elettorale in corso. E’ necessario che la campagna Un’altra difesa è possibile rilanci autorevolmente la propria proposta, faccia sentire autonomamente la sua voce e misuri i programmi elettorali e l’impegno dei singoli candidati – collegio per collegio – sulle questioni essenziali. Chiedendo loro di scegliere tra l’obbedienza al complesso militare-industriale e l’obbedienza alla propria coscienza. Attivandosi sia sul piano nazionale che sui singoli territori. Preparandosi così a rilanciare la proposta di legge con il nuovo parlamento eletto, richiamando le forze politiche e i futuri parlamentari agli impegni assunti in campagna elettorale.

Insomma, a cinquanta anni dalla morte di Aldo Capitini – che proprio nel 1968 passava alla “compresenza” – o riusciamo ad avviare una rivoluzione nelle idee, nelle strategie e nell’uso delle risorse per difesa e sicurezza, sottraendole agli interessi bellici del complesso militare-industriale, o lo farà quest’ultimo sottraendo definitivamente la costruzione della pace e della sicurezza dalle prospettive realistiche della politica. E non ci rimarrà che osservare, di volta in volta, che guerra sarà. Protestando forse, ma sempre più debolmente, fino a passare – prima o poi – da vittime indirette a vittime dirette.

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