Cultura
Guerra, cosa non si fa contro di te
Medico chirurgo,il fondatore di Emergency da dieci anni è in prima linea per la riabilitazione delle vittime delle mine.
Che sia vero quanto dice il poeta albanese Gezim Hajdari, e cioè che per salvare l?uomo dobbiamo salvare la Parola? Che questo secolo che si spegne porta con sé anche l?urgenza della rifondazione di un?idea, religiosa, filosofica o politica, che ridisegni le coordinate dell?umano agire e sentire? Domande legittime da porsi in questo momento drammatico, mentre le vicende del Kosovo scuotono molte coscienze pasciute nel benessere e che, risvegliate, spesso alla cieca cercano di prendere posizione. Domande che ci siamo poste anche leggendo il libro del chirurgo Gino Strada Pappagalli verdi (Feltrinelli editore), un libro che ci ricorda che la parola guerra con la G maiuscola è ben lungi dall?essere un vocabolo in via d?estinzione. Sul conflitto più vicino a noi Gino Strada ha le sue idee, e verrebbe da dire: beato chi ha certezze! E comunque al medico milanese, fondatore dell?ong Emergency, va riconosciuta l?onestà morale che sottende il suo lavoro.
Da oltre dieci anni Strada è impegnato in prima linea a curare la riabilitazione delle vittime della guerra. E questo succede in Afghanistan (da dove è tornato poche settimane fa), nel Kurdistan iracheno (dove rientrerà a giorni), in Cambogia, in Ruanda, in Bosnia, in Etiopia, e – come ci dice lui stesso – «nel Kosovo o in Serbia, là dove serve, perché noi chirurghi di guerra arriviamo quando in genere tutti scappano o quando i riflettori dei media non ci sono più». E se i riflettori di questi giorni rimandano immagini di un esodo biblico che non può non scuotere l?anima, la denuncia, sotto forma di racconto, del chirurgo milanese dovrebbe far riflettere tutti, in primis quei governi che ancora decidono la guerra con la vecchia logica del fronte: dal secondo conflitto mondiale in poi, grazie all?aviazione e alle mine antiuomo, il 93 per cento delle vittime di guerra è costituito da civili.
Sono racconti strazianti quelli che ci riporta Strada, storie di «vittime di guerra in tempo di pace: bambini, donne, anziani, colpiti mentre giocano nei prati, mentre accompagnano animali al pascolo, coltivano campi o raccolgono legna nei boschi». Umanità rassegnata e dignitosa che di generazione in generazione, come alcuni abitanti di un piccolo villaggio, Shivaraz, nel Kurdistan iracheno (tre mine per abitante) si tramandano in modo quasi ereditario questa nuova ?malattia? presa dai pappagalli verdi, soprannome poetico che usano i vecchi afghani per definire la forma delle mine antiuomo.
Emergency si occupa della riabilitazione delle vittime civili della guerra: «Si deve sapere», continua Strada, che sono almeno duemila al mese le vittime di oltre 110 milioni di mine antiuomo disseminate nel mondo. Per almeno un secolo, anche se nuove mine non saranno più disseminate, quelle già sul terreno continueranno a provocare vittime».
Avevamo preso appuntamento con Gino Strada per parlare di questo libro che è già alla terza edizione (e sta per uscire la quarta), un segnale importante per una serie di racconti difficili da dimenticare, e significativo anche perché i proventi del libro andranno tutti a Emergency, che sta cercando di costruire un altro ospedale in Afghanistan. Un libro che ci ricorda quanti conflitti siano ancora aperti nel mondo e soprattutto quanti mediaticamente non arrivano alle nostre coscienze perché dimenticati, o di poca rilevanza politica per noi occidentali.
Gli avvenimenti di questi giorni nei Balcani riportano in primo piano, con tutta la loro drammaticità, interrogativi sul che fare e come fare a fermare massacri e conflitti che non sono solo alle porte di casa, ma in Africa, in Medio Oriente, in Asia.
Gino Strada, esiste una guerra giusta? «Per me no! Se uno scopo, oltre quello di raccogliere fondi, il mio libro ce l?ha, è proprio quello del rifiuto della guerra. Per rifiuto intendo dire che è possibile un mondo senza guerra. Non è un?utopia, è un progetto sul quale bisogna cominciare a lavorare. Purtroppo la politica in questo momento, e parlo della politica internazionale, non solo italiana, è ancora lontana dal costruire questo progetto. Per questo ci vogliono risorse umane e risorse morali che con buona e reale volontà pianifichino delle tappe: tanto per dirne due, non si esportino più le armi, non si costruiscano più le mine antiuomo, vero flagello di una guerra che continua in sordina. Un progetto che dietro deve avere una cultura che esalti il diritto umanitario che ancora è ben lungi dall?essere applicato».
È facile essere d?accordo con questa posizione, ma come fare a impedire l?inevitabilità della guerra? Perché idee forti in proposito fanno fatica a farsi strada? «Lo ammetto», dice Strada; «ma ripeto che senza una strategia che arrivi a infondere nelle coscienze che la guerra va messa fuorilegge, non si arriva da nessuna parte. Per me, laico, ?non ammazzare? è il primo dei comandamenti. Per me, medico, la guerra è sintetizzata in questa immagine: un obiettivo fotografico che inquadra una persona con una bomba sopra la testa e una mina sotto i piedi».
Nella logica della guerra ci sono tutti questi controsensi, ci ammonisce Strada nel corso delle sue cronache: il Trattato di Ottawa ha messo al bando le mine antiuomo, ma molti paesi (tra cui gli Usa, la Russia e la Cina) non hanno firmato; ci preoccupiamo di duemila curdi che arrivano in Italia, ma non sottolineiamo che il nostro Paese ha infestato il Kurdistan di dieci milioni di mine; ci preoccupiamo degli aiuti umanitari (sacrosanti), ma spesso questi si decidono sulla base di convenienze, amicizie e spesso, come succede per esempio in Cambogia, dove un abitante ogni 230 ha perso una gamba, i campi profughi sono «fonte di potere, dove i profughi sono preziosi prigionieri che fanno da scudo e attirano soldi, quelli degli aiuti internazionali». Non si ferma il chirurgo: «Sono indignato con una civiltà che basa tutto su quell?unico dio rimasto: il denaro. Porto un esempio: l?Etiopia e l?Eritrea sono di nuovo a un passo dal conflitto, ma nessuno ne parla, nessuno si degna di dare ascolto a chi lancia allarmi, a chi sostiene che si può trovare una soluzione prima di arrivare ad intervenire, se mai si interverrà, visto che lì forse non ci sono interessi economici in gioco per chi è abituato ad usare la forza in funzione di questa logica, quando ormai come diciamo noi, ?il malato è in rianimazione?. E ancor di più, oggi, sono disgustato dalla violenza delle parole, dall?uso distorto dei concetti. Per capirci: per me, questa guerra della Nato contro la Serbia non è un intervento umanitario, è una guerra che ha la sue ragioni. Allora si abbia l?onestà di ammetterlo e si dia a ognuno la possibilità di farsene un?idea. Io dico che se si parla di Milosevic non si può dall?altra parte parlare dei kosovari come se i governanti là non ci fossero: se parliamo del popolo kosovaro, ci dovremo occupare anche del popolo serbo, e lo dico non perché Milosevic abbia ragione, ma perché per me esistono le vittime, i singoli individui che spesso sono cosa ben diversa dai governi».
Sul concetto di persona, di individuo, Gino Strada torna spessissimo, e per uno che ha sempre difeso le sue scelte di comunista, anche quando molti hanno abiurato, questo fa pensare a una presa di coscienza forte che al di là dalle prese di posizioni ideologiche si misura con la concretezza di un possibile progetto: «Se uno Stato, un governo, un individuo non prova reale compassione e rispetto per una vita umana, un progetto per un popolo vale zero. Perché si basa sul niente e questo, se vuole, è stato anche il grande equivoco o il grande limite dell?esperienza dei Paesi socialisti. Per quarant?anni, di fatto, si violano i diritti in attesa di un futuro in cui il mondo sarebbe stato migliore, ma intanto si stava male. Credo che Moni Ovadia abbia ragione quando dice che il progetto di un uomo nuovo e diverso è un progetto di tutti, che però vale soltanto se è il progetto di ciascuno». Scrive una cosa altrettanto importante Ovadia nella prefazione di Pappagalli verdi: «Secondo i principi dell?antropologia ebraica noi tutti discendiamo da un solo uomo perché nessuno possa dire: il mio progenitore è meglio del tuo. Ciononostante siamo tutti diversi l?uno dall?altro perché non siamo la semplice replica di un modello, ma un unicum insostituibile che per questo contiene in sé l?umanità tutta». Che sia questa la sfida del terzo millennio?
E queste, le ricordate?
«Mai più guerre», urlò Paolo VI all?Onu. Mai appello fu così poco ascoltato, a giudicare da con quanti eventi bellici si chiude il millennio. Guerre dichiarate e guerre civili, conflitti territoriali, repressione politica, discriminazione etnica e religiosa provocano decine di migliaia di vittime. E quasi sempre sono guerre ?dimenticate? dall?Occidente. Ecco le principali (oltre a quelle citate nelle foto sopra).
EUROPA – Nell?Ulster e nei Paesi Baschi gli attentati cercano di minareuna fragile pace. A Cipro un muro divide greco-ciprioti e turco-ciprioti. Nell?ex Urss resta tesa la situazione in Moldova, Cecenia, Daghestan, Georgia, e non è mai stata siglata la pace tra Armenia e Azerbaigian. In Bosnia la fragile pace è sorvegliata dalla Nato. E poi c?è il Kosovo…
AFRICA – La guerra tra Etiopia e Eritrea è tutt?altro che conclusa. Repressione e lotte di potere insanguinano il Congo ex Zaire, il Congo ex Brazzaville, la Guinea Bissau, la Somalia, il Niger (dove c?è appena stato un sanguinoso golpe). La guerra civile infuria atroce in Angola, dove è riesplosa prepotente negli ultimi mesi, e in Algeria, dove si trascina tra islamici e governativi da più di sette anni. Il Ciad resta teatro di una delle guerre più dimenticate. Nel Niger e nel Mali i tuareg si oppongono alla politica di sedentarizzazione forzata. Nel Sahara Occidentale la tensione cresce in attesa del referendum per l?indipendenza dal Marocco.
ASIA – Il Libano del sud e i Territori occupati restano aree caldissime, in vista anche della ormai prossima proclamazione dell?indipendenza della Palestina. Attentati anche in Iran. In stallo la guerra tra Pakistan e India per il controllo del Kashmir. Tensioni anche fra i due Yemen; fra le Coree (formalmente in guerra dal 1950), in Cambogia (dove c?è il più alto numero di mine al mondo). India e Birmania reprimono le minoranze etniche. La Cina se la prende con i buddisti del Tibet e i musulmani del Sinkiang. Guerra etnica infinita nello Sri Lanka, guerriglieri all?opera anche nelle Filippine, mentre a Timor est, in vista delle trattative per l?indipendenza, la guerriglia indonesiana sta falcidiando i cristiani. Tesa anche la situazione in Papua Nuova Guinea.
AMERICHE – In Colombia prosegue la guerra dello Stato contro guerriglieri e narcos. Nel Chiapas il Fronte Emiliano Zapata non s?è affatto piegato all?esercito governativo.
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