Cultura

Guardare l’Africa morire, o mobilitarci?

L'editoriale di Giuseppe Frangi sulla difficile situazione del continente africano.

di Giuseppe Frangi

Ha fatto bene Savino Pezzotta a prendere carta e penna e chiedere a tutti gli amici della Tavola della pace di riscrivere la scaletta dei prossimi mesi, portando in testa all?agenda, senza indugi, la questione africana. Dopo tanto impegno dedicato a combattere una guerra che oggi, poco alla volta, si scopre non esserci mai stata (come volevasi dimostrare, i cosiddetti nemici erano in pratica a libro paga dei servizi americani o del Pentagono), sarebbe assurdo non impegnarsi per fermare una guerra vera. Non se ne sa nulla, non se ne racconta nulla, ma il più grande giornalista esperto di cose africane, Ryszard Kapuscinski l?ha ribattezzata con una definizione che mette i brividi: prima guerra mondiale africana. È quella che nel giro di cinque anni ha fatto tra i tre e i quattro milioni di morti nel Congo Kinshasa. Una guerra feroce e senza quartiere, dove bande armate sino ai denti seminano il terrore tra i civili (Vita ha dedicato la copertina del numero scorso e ci tornerà con un altro servizio di Angelo Ferrari la settimana prossima). Ma chi arma quelle bande? Chi procura soldi per continuare una guerra spaventosamente fuori portata per Paesi dai magrissimi Pil? Quali interessi spregiudicati si muovono dietro questo conflitto come dietro gli altri 12 che in questo momento affliggono il continente nero? Non vogliamo qui affrontare l?analisi della deriva che ogni giorno rende la vita insostenibile a milioni di uomini. Non ne abbiamo le competenze e gli strumenti. Ma da comunicatori abbiamo invece gli strumenti per porre un?altra domanda: è il sistema mediatico globalizzato che deve sempre dettare l?agenda a tutti, anche a chi gli si oppone? O invece c?è lo spazio, la forza e la volontà di uscire da questo copione obbligato? Di quella forza e di quella energia morale il movimento new global in questi anni ha dato più volte prova. In particolare durante quelle drammatiche giornate genovesi di due anni fa, quando, inaspettata, una folla immensa, trasversale e plurale era scesa per le strade per chiedere che l?agenda dei grandi venisse cambiata. Fu un ribaltamento non previsto, una scossa impetuosa che poi si tentò di neutralizzare nei modi che tristemente sappiamo. Oggi siamo alla vigilia di un nuovo G8. I grandi si trovano al capezzale di un Occidente sulla soglia di una crescita economica zero, impotenti e tragicamente grotteschi. Sfugge loro la questione di fondo: quella che stiamo vivendo è la crisi di una civiltà che ha sognato di poter tenere le redini del mondo, lasciandone una metà ai margini del progresso e della storia. Di quella metà l?Africa è parte preponderante, e in un certo senso il drammatico simbolo. E lì che la diseguaglianza dello sviluppo ha lasciato le sue ferite più profonde: che si chiamino Aids, guerre, fame o conflitti etnici e religiosi. Ed è lì che il destino di milioni di uomini dipende dall?affermarsi di un mondo diverso. Per questo non solo siamo d?accordo con Savino Pezzotta, ma gli siamo anche grati di aver posto in maniera così perentoria la questione. In quegli stessi giorni, dal palco di Modena, Bono ha voluto comunicare un messaggio molto simile. Ha detto che per salvare l?Africa, lui che non nasconde il suo schieramento a sinistra, non disdegna di incontrare e di chiedere un impegno a Berlusconi e a Bush. E poi, a sorpresa, e quasi per monito, ha cantato un?Ave Maria dal testo cambiato: «I cattivi fanno molto rumore/i giusti restano in silenzio/senza saggezza tutte le ricchezze ci rendono davvero poveri/la forza senza umiltà è una malattia incurabile».


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