Welfare

Guardare alla mobilità italiana con la lente della famiglia

Di fronte al flusso stabile di persone, soprattutto giovani, che scelgono di lasciare l’Italia facendo raggiungere nel 2017 la quota di cinque milioni agli italiani all'estero, la Federazione delle Acli Internazionali ha deciso di realizzare un’inchiesta sociale, su base statistica, rivolta direttamente alle famiglie di espatriati per cercare di conoscere meglio la loro esperienza e capire quali possano essere i loro bisogni

di Matteo Bracciali

Finalmente ci stiamo rendendo conto che la mobilità italiana verso l’estero è un fenomeno sociale più ampio di quanto lasci intendere l’espressione “fuga dei cervelli”.

Certamente il fatto che persone di talento e altamente qualificate preferiscano andare a lavorare fuori dall’Italia rappresenta una questione rispetto alla quale è necessaria una qualche forma efficace di compensazione poiché non possiamo continuare a essere un paese che nonostante abbia ancora un’economia tra le più sviluppate rimane al 36° posto nella graduatoria del Global Talent Competitiveness Index [cfr. INSEAD: The Global Talent Competitiveness Index 2018, Fontainebleau, France, 2018].

La capacità di attrarre migrazioni qualificate che compensino i flussi in uscita o di incentivare forme di circolazione dei cervelli, proponendo percorsi di rientro anche temporaneo, è solo una parte della questione perché nel 2017 (anno al quale sono riferiti i dati più aggiornati forniti dalla Fondazione Migrantes) sono espatriati 125mila nostri connazionali portando la popolazione degli italiani all’estero a sfiorare i cinque milioni. Non dobbiamo dimenticare che questi dati sono soggetti a sottostima a causa della mancata registrazione presso l’Anagrafe degli italiani all’estero.

Siamo quindi di fronte a un flusso stabile di persone, all’interno del quale non ci sono solo lavoratori high skilled ma anche persone con profili professionali più bassi che scelgono di lasciare l’Italia per cercare impieghi nel settore dei servizi, della ristorazione e del turismo.

Sono soprattutto i giovani a lasciare l’Italia: il lascito più problematico del decennio di crisi economica è sicuramente l’abnorme disoccupazione giovanile e, più in generale, l’aumento della precarizzazione del mercato del lavoro. È naturale che in uno scenario così penalizzante la via dell’estero rappresenti un’alternativa allettante, anche perché molto spesso le opportunità di lavoro che si trovano fuori dall’Italia sono soddisfacenti sia in termini di retribuzione sia rispetto alla percorso di carriera.

Le Acli hanno da poco pubblicato una ricerca (“Il ri(s)catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi”, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2018) nella quale si comparano gli atteggiamenti nei confronti del lavoro degli under30 rimasti in Italia con quelli dei coetanei expat.

I risultati dell’indagine ammettono poche repliche: il 73% dei ragazzi italiani pensa di essere sotto-pagato, tra gli expat questo dato è venti punti percentuali più basso (53%); rispetto alla carriera, il 57% degli espatriati laureati pensa di avere un prospettive positive, tra gli omologhi residenti in Italia dei laureati raggiunge a malapena il 25%; infine il 54% dei ragazzi spostatisi fuori dall’Italia fa un lavoro corrispondente alle proprie credenziali formative tra gli italiani si arriva al 34%.

In poche parole, per i giovani andare a lavorare all’estero significa evitare o quantomeno ridurre le penalizzazioni sistematiche che si subiscono in Italia al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro.

Ribadire che per molti giovani andare all’estero significa avere maggiori opportunità non equivale a dire che la mobilità lavorativa italiana abbia un tratto esclusivamente generazionale. Emigrano anche persone in età centrale, quarantenni e cinquantenni in cerca di una nuova opportunità o di uno spazio di ricollocazione: se si considerano i numeri dell’Aire per il 2017 si nota che a fronte di un 39% di 18-34enni (oltre 9 mila in più rispetto all’anno precedente, +23,3%), c’è anche un 25% di persone che ha tra i 35 e i 49 anni, persone adulte che spesso hanno già una famiglia, altrimenti non si spiegherebbe dove sono andati a finire quei 25mila under18 che lo scorso anno hanno cancellato la propria residenza dall’Italia a uno stato estero.

Mi pare che gran parte delle analisi sulla mobilità italiana risenta di un bias individuale per il quale, la mobilità è un’opzione personale, maturata e agita in autonomia. Il grande escluso è la famiglia. Come insegnano gli studi sulle migrazioni internazionali la scelta migratoria non è mai disgiunta da valutazioni sui vantaggi che potrebbe ottenere in nucleo del migrante nel suo complesso. La mobilità italiana verso l’estero appare essere un fenomeno abbastanza articolato e strutturato da poter essere considerato secondo un paradigma che vada oltre la narrativa della “fuga dei cervelli” introducendo un punto di vista più attento alle diverse componenti demografiche e sociali presenti all’interno dei nuovi flussi verso l’estero.

Per questo motivo la Federazione delle Acli Internazionali ha deciso di realizzare un’inchiesta sociale, su base statistica, rivolta direttamente alle famiglie di expat per cercare di conoscere meglio la loro esperienza e capire quali possano essere i loro bisogni.

La ricerca è stata avviata in queste settimane e coinvolgere tredici città sparse per il mondo: da New York a Londra, passando per Parigi, Melbourne, Bruxelles, sino ad arrivare a San Paolo e Buenos Aires. L’obiettivo dichiarato è di rinnovare la nostra missione che è quella della tutela e del sostegno alle marginalità rispetto alla migrazione che è cambiata profondamente ma che porta con sé sempre fragilità e paure.

La ricerca ci dà un'altra grande opportunità: quella di poter analizzare il percorso di integrazione dei nostri connazionali nei diversi contesti urbani internazionali. Un target di persone che hanno superato le difficoltà del primo approdo riconoscono quali strumenti poter mettere in campo per un aiuto serio alla mobilità internazionale e ci aiutano a capire quale nuovo welfare serve alla conciliazione vita – lavoro in particolare nelle città globali. I risultati sono previsti per il prossimo ottobre.


*Matteo Bracciali è il Responsabile dipartimento internazionale del Servizio Civile delle Acli

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