Sostenibilità

Guarda cosa si scopre smontando l’Ikea

Il libro di tre attivisti francesi smaschera la multinazionale svedese del mobile: poca trasparenza. E i suoi legni... di Irene Amodei

di Redazione

Si prevede che nei prossimi anni un neonato europeo su dieci verrà concepito su un letto Ikea. L?informazione non è, ovviamente, verificabile, ma rende bene l?idea. La celebre ditta svedese è ormai diventata un mastodonte del prêt-à-habiter: 14,8 miliardi di euro di fatturato nel 2005 (un incremento del 400% rispetto al 1994), 160 milioni di cataloghi distribuiti e tradotti in 25 lingue, 220 stabilimenti da 12mila metri quadri ciascuno, 104mila lavoratori diretti e 450 milioni di clienti. Eppure nessuno si sognerebbe di ridurre Ikea a una multinazionale qualsiasi. Prima di essere una società, infatti, l?impresa fondata da Ingvar Kamprad è un?esperienza collettiva, un concetto, per molti addirittura un mito. Prezzi bassi, servizio accurato, attenzione ai bisogni e alle esigenze delle famiglie, un codice di condotta (Iway) che promette di vigilare sui fornitori, sulla provenienza delle merci e sulle condizioni di lavoro degli impiegati. Per usare le parole del presidente del gruppo, Anders Dahlvig: «Affari e democrazia possono andare d?accordo e noi ne siamo la prova». Olivier Bailly, Denis Lambert e Jean-Marc Caudron hanno deciso di verificare questa affermazione e di raccogliere i risultati in un volume Ikea: un modèle à démonter (Ikea: un modello da smontare) pubblicato dalle Editions Luc Pire sotto l?egida di Oxfam Belgio-Magasins du Monde, non ancora tradotto in Italia. Un?inchiesta senza preconcetti L?indagine, condotta con ironica serietà dai tre giornalisti – che per raccogliere informazioni hanno visitato gli stabilimenti del colosso blu e giallo in giro per il mondo (dal Vietnam alla Bulgaria, dall?India a Bruxelles) – invita a riflettere su un modello che non si presta alle tradizionali e talvolta facili caricature altermondialiste, perché più complesso e, forse, maldestro. Grazie a una straordinaria gestione della comunicazione, il gigante svedese si è costruito negli anni un ?capitale simpatia? di cui ben poche altre società possono vantarsi e di fronte al quale anche il più incallito consumatore critico vacilla. L?analisi dell?équipe belga ha il merito di mettere a fuoco le défaillance che il marketing aziendale tende a minimizzare, ricercando sul terreno quanto declamato dalla carta e incorporato dall?immaginario. E lo fa con scrupolo e acume, in uno sforzo equilibrato che non mira a «distruggere il mostro», bensì a dibatterne i meccanismi e comprenderne le scelte. Ikea si vuole (o si vende) naturalmente verde, parsimoniosa e rispettosa delle risorse della terra. Sarà il richiamo costante ad una ?svedesità? primigenia, saranno gli alci di peluche, le recenti campagne per la protezione delle foreste vergini con tanto di certificazioni Fsc – Forest ste-wardship council, le collaborazioni con WWF e Greenpeace. Eppure il paradiso dell??acquisto compulsivo? propaganda un modello iperconsumistico, poco coerente con un impegno ambientalista. Quanto all?impronta ecologica della società, ammessa una certa attenzione alla gestione dei rifiuti e al consumo energetico degli stabilimenti (diamo a Cesare quel che è di Cesare), Ikea nel 2005 ha utilizzato 640mila metri cubi di legno di ?provenienza ignota? ovvero non controllato, ed emesso nel complesso, secondo la Business Leaders? Initiative on Climate Change, 2.808.424 tonnellate di anidride carbonica. Ikea è percepita come una ditta rigorosamente giovane, sovversiva (ma non troppo) e soprattutto trasparente quanto il ghiaccio della tundra lappone. Eppure, non essendo quotata in Borsa, ha una struttura talmente opaca che non è neanche possibile sapere con certezza chi ne sono i proprietari. «Impossibile avere i dettagli contabili, impossibile avere un bilancio definitivo, impossibile conoscere l?entità dei possedimenti e degli investimenti della società», affermano gli autori, che cercano di far luce all?interno di una nebbia giuridica fatta di filiali, società anonime, fondazioni gemelle, holding e offshore tra cui è arduo districarsi. In India, meglio Nike Ikea si atteggia a ditta socialmente responsabile e paladina dei diritti umani. Formazione del personale, buone condizioni di lavoro, una gerarchia ?morbida? nel più nordico degli stili, impegnative collaborazioni con l?Unicef e Save the Children contro il lavoro minorile e a favore della scolarizzazione e dei programmi di vaccinazione. Una sottile ?vernice sociale? che mette al riparo, una volta per tutte, dalle ricorrenti tempeste mediatiche? Niente affatto secondo i tre autori. «In Paesi come l?India o il Bangladesh va riconosciuto un reale progresso», affermano gli autori, «Ikea si pone al di sopra della media nazionale». Eppure l?impresa-modello si rifiuta di comunicare la lista completa dei suoi fornitori (cosa che invece fanno Nike, Puma o Reebok), il meccanismo di audit interno esiste, ma è «intrinsecamente debole, incompleto e imperfetto» (due visite all?anno di uno o due giorni, i cui risultati restano strettamente confidenziali). Risultato: in India e in Bangladesh gli operai tessili lavorano 15 ore al giorno; una giornata di malattia equivale a due di ritenuta salariale, niente sindacati e un salario minimo legale, ma non vitale. Con un ragionamento forse a tratti un po? impertinente ma rigoroso, il gruppo Oxfam-Magasins du Monde invita a «prendere coscienza di quello che Ikea ci offre. E soprattutto di quello che ci prende», a scegliere i consumi, a esigere informazioni chiare sui nostri acquisti, a tenere alta la guardia, sempre e comunque, non accontentandosi di un consolatorio «c?è di peggio».


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