Famiglia

Guarda chi ci attacca: gli ex sessantottini

Verso il G8. Intervista a Naomi Klein

di Carlotta Jesi

Griffata, non è griffata Naomi Klein. Ma quando – caschetto biondo cenere sfrangiato al punto giusto e completo di jeans coordinato – fa il suo ingresso alla Casa della cultura di Milano per presentare il suo libro contro la politica del branding, sembra più una Pr che un?attivista. Di certo non la giornalista impegnata che, all?indomani di Seattle, portava il suo libro in giro per i campus americani armata di forbici con cui tagliare le etichette dai vestiti del pubblico. Per presentare No Logo in Italia, la Klein ha scelto un formato più tradizionale: comunicati stampa su carta patinata, incontro con i giornalisti in una grande libreria, chiacchierata con la società civile. E dire che il suo cliccatissimo sito www.nologo.org, costruito con software open source, sarebbe stato perfetto per divulgare un libro contro la globalizzazione. Non sarà che per smascherare le multinazionali bisogna giocare secondo le loro regole? «Se non vuoi essere emarginato, non puoi essere puro al 100%», risponde la trentenne più temuta dalla Corporate America. «Il segreto, se mai, è prendere in contropiede chi cerca di controllarti. O, come nel mio caso, di farti passare come un?attivista digeribile». Vita: Paragonata al resto della sua famiglia – nonno licenziato dalla Walt Disney per aver cercato di fondare un sindacato e genitori emigrati dagli Usa al Canada per protestare contro la guerra in Vietnam – effettivamente lei potrebbe sembrare un?attivista meno scomoda. Come riesce a non farsi strumentalizzare? Naomi Klein: Facendo quello che i media non si aspettano. Per esempio destinare all?assistenza legale dei 450 attivisti arrestati al Summit delle Americhe di Quebec City i 10mila dollari vinti con il National Business Book Award invece che condannarne pubblicamente gli episodi di violenza. Oppure non facendo il film di No Logo, anche se qualcuno dice che è già pronta la sceneggiatura. Vita: Qualcuno dice anche che il suo libro contro le etichette – che fra l?altro in copertina ha un logo disegnato dal guru della grafica canadese Bruce Mau – rischia di diventare un marchio con cui identificare il popolo di Seattle. è una contraddizione? Klein: In No Logo non auspico un mondo completamente bianco, senza più etichette; piuttosto sogno di usare la forza legata alla politica del marchio per rivendicare gli spazi e i valori che le multinazionali hanno scippato ai cittadini. Abbiamo bisogno anche di marchi positivi come quelli che certificano un commercio che non sfrutta i lavoratori dei Paesi in via di sviluppo e, in generale, di loghi che siano davvero sinonimi di libertà. Vita:La libertà, i diritti umani e, in generale, gli altri principi che la società civile difende manifestando durante i Summit non sembrano interessare alla stampa internazionale, che invece riporta con dovizia di particolari lo sfascio di vetrine e ogni episodio di violenza. C?è un modo per cambiare questa situazione? Klein: Io ci provo ogni giorno. If you don?t like the media, be the media: se non ti piacciono i media, diventa i media. Ma la responsabilità non è solo di giornali e televisioni. Se, infatti, da un lato è difficile che essi parlino in maniera costruttiva degli attivisti perché spesso sono diretti da ex sessantottini che si considerano molto liberali e prendono in maniera personale gli attacchi della società civile, dall?altro è innegabile che spesso gli attivisti non comunicano abbastanza i principi del loro lavoro. Occupati come siamo a criticare il sistema, spesso ci dimentichiamo di comunicare le nostre ragioni a colleghi o amici. Ed è in questo vuoto che trovano spazio i falsi allarmismi sul G8. Vita: «Costruire un altro mondo è possibile» è lo slogan creato al World Social Forum di Porto Alegre. Lei ci crede? Klein: Dobbiamo rivendicare gli spazi e gli ideali che le multinazionali ci hanno rubato, ma non so se questo significa costruire un altro mondo o, come dicono gli zapatisti, un mondo in cui tanti mondi sono possibili.


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