Sostenibilità

Gruppi d’acquisto,la soft economyche non conosce crisi

il tema del mese

di Redazione

Sarà anche soft ma ormai è sempre più power. Nel senso che il movimento dei Gruppi d’acquisto solidali – pur essendo un modo “morbido” di cambiare le cose – ha ormai dalla sua il potere dell’economia. Piccoli numeri, certo. Ma in costante crescita. Se nel 2005 si sono contati 146 gruppi d’acquisto, appena tre anni dopo si sfiora quota 400, sempre più spesso in rete fra loro. Si stima che le famiglie coinvolte siano complessivamente 25mila. E certo è un apprezzamento per difetto: sono sempre di più le persone che vogliono sapere cosa mangiano…

Una sensibilità postmoderna
Un aumento assai significativo per gruppi che su base volontaria e spesso con grande informalità si riuniscono per comperare all’ingrosso prodotti alimentari o di uso comune, all’insegna di una composita e articolata solidarietà. Che riguarda i piccoli produttori e la scelta di sostenerne l’impegno (appoggiandoli perché possano mantenere un buon livello qualitativo), si estende all’ambiente (a favore della biodiversità e per ridurre la filiera, il che equivale a contenere i trasporti e quindi a lottare contro l’inquinamento) e in generale si configura come un’azione critica verso il consumismo e l’economia della globalizzazione.A muoverli un insieme di ragioni, come sempre avviene nelle sensibilità postmoderne. La componente mutualistica, il senso identitario, la gioia di trovarsi insieme e di auto-organizzarsi andando alla ricerca di produttori rispettosi dell’ambiente, il desiderio di consumare prodotti di qualità (magari biologici o che siano stati realizzati rispettando le condizioni di lavoro), tenendo il più possibile sotto controllo i costi.
«I Gruppi d’acquisto solidali», spiega Lorenzo Guadagnucci, esperto e “gasista” (vedi intervista a pagina 4), «sono formati da persone abbastanza giovani che hanno già famiglia. Quindi parliamo della fascia fra i 30 e i 40 anni».

Un fenomeno del Nord
Nonostante l’impressionante crescita, il fenomeno dei Gas continua ad avere una distribuzione territoriale non omogenea: se in Lombardia nel 2008 sono censiti 98 gruppi (a Milano, un gas in ogni quartiere), nelle Marche sono 17, nel Lazio 24. In generale il 66,3% dei Gas è nel Nord, il 24,4 al Centro, il 10,3 al Sud. «Sono particolarmenti vivaci al Nord, per numero di persone coinvolte e quantità delle merci, ma è naturale», commenta Tonino Perna, docente di Sociologia economica a Messina, «visto che nascono anche dal bisogno di ricreare il legame fra città e campagne». Un legame saltato specialmente al Nord e ancora per molti aspetti vitale nel Meridione («dove hanno un valore più simbolico e rappresentano una certa volontà di non partecipare al consumismo acritico»). È questo del resto il filo rosso che collega quest’esperienza a quella di fenomeni come Slow Food e il commercio equo e solidale: ristabilire un rapporto significativo e durevole fra luoghi di produzione e quelli del consumo vuol dire non solo aver accesso a prodotti di qualità ma anche recuperare una cultura e un sapere tradizionali che rischiavano di andar smarriti sull’altare dell’hot dog. Complice una progressiva riduzione della quota alimentare del budget familiare: «Nel secolo scorso abbiamo assistito», ricorda Perna, «a una progressiva erosione di questa spesa. Rappresentava circa il 45% del reddito familiare nel 1950; ora è al 16/18%. È chiaro che i Gas tendono a riequilibrare, in nome della qualità, questa situazione».

E il futuro?
Il 2008 non è stato solo l’anno dell’exploit. È stato anche quello del riconoscimento ufficiale. La Finanziaria 2008, ai commi 266-268, ha infatti riconosciuto i Gas come «soggetti associativi senza scopo di lucro», per i quali sono state anche introdotte disposizioni fiscali di favore (con un piccolissimo fondo, però…).

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