Non ho potuto fare a meno di pensarci. Un po’ perché producono la stessa cosa (gelato) e un po’ perché l’acquirente è lo stesso (Unilever). Ma soprattutto perché sia per Ben&Jerry’s che per Grom non si fa fatica a scorgere un’aura di innovazione sociale, seppur con tonalità diverse. Nel caso del gelato americano – buono peraltro – la si nota nella filiera dei prodotti (che punta molto sul fair trade) e anche nel modello di gestione; è infatti – anche dopo l’aqcuisizione – una Benefit Corporation cioè un’impresa che incorpora (e rendiconta) elementi di valore sociale e ambientale come parte integrante del modello di business, non “esternalizzandoli” a pratiche di CSR. Grom non arriva a questo punto – anche se non mi sorprenderei di una scelta in tal senso, soprattutto se sbarcasse in Italia una normativa in tal senso – ma comunque il suo successo è molto legato ad aver estratto (e capitalizzato) elementi di valore da culture sociali come quelle elaborate da Slow Food.
Come leggere questa doppia acquisizione? Facile in prima battuta vederci l’ennesimo caso di economia “sociale” (in senso lato) inglobata in quella capitalistica e, quasi come effetto immediato, la perdita dei suoi “valori autentici”. Per Grom si potrebbe rincarare la dose tirando di mezzo il made in Italy e il fatto che, nonostante le critiche, sia stata quasi certamente la miglior startup degli ultimi anni. E così il claim dell’azienda piemontese – “il gelato come una volta” – si potrebbe leggere come una sinistra profezia. Ma si potrebbe andare oltre, generalizzando la casistica ad altre acquisizioni avvenute in altri comparti. Famosa, ad esempio, quella della piattaforma di car-sharing Zipcar da parte del colosso del noleggio auto Avis, avvenuta ormai qualche anno fa.
In realtà la questione è più complessa e, inevitabilmente, ambivalente. Si tratta, con tutta probablità, di un piano di acquisizioni da parte di Unilever dove il valore dell’asset è determinato anche dall’impatto sociale e non solo dalla qualità intrinseca del gusto “crema di Grom”. E quindi l’intento è di accelerare il processo di riposizionamento della multinazionale all’interno di nuovi paradigmi di produzione e consumo caratterizzati da una maggiore condivisione del valore, ad iniziare dai consumatori. Assumere il controllo di imprese che sono eccellenze (anche) da questo punto di vista non fa una piega, come ben dimostrano le posizioni di Paul Polman, Ceo di Unilever.
Rispetto a questa tendenza è forte la tentazione dell’economia sociale di “blindare” il proprio modello, impedendo o rendendo molto difficili operazioni di questo tipo. Così facendo c’è però il rischio di confinarsi all’interno di nicchie dalle quali è difficile uscire, se non attraverso società veicolo che in molti casi si limitano a fare da impalcatura strumentale allo sviluppo del business, piuttosto che da moltiplicatore del valore sociale. Forse servirebbero architetture societarie ad hoc, ma sicuramente servirebbe una strategia di acquisizione (o almeno di partnership) mirata. Ad esempio per “prendersi” (posto che gli interessati lo vogliano!) una startup come Destinazione Umana che sembra fatta apposta per un turismo sociale e cooperativo, ma che potrebbe anche arricchire in senso esperienziale l’offerta di big players turistici come un tour operator o una piattaforma di prenotazioni online. Mai come in questa fase il panorama è ricco di opportunità. Basta scegliere (si fa per dire).
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