Devo cercare di essere oggettivo e sereno. Non è facile parlare della mamma, visto che mi ha lasciato da pochi giorni per raggiungere mio padre in cielo. Si rischia di essere retorici, pieni di buoni sentimenti, scontati. Ma queste righe gliele devo (le devo molto di più, per la verità) perché se posso oggi scrivere liberamente un blog “senza barriere” è anche merito suo, di una donna speciale, coraggiosa, modernissima. Quando sono nato, nel 1952, non esisteva l’ecografia prenatale, non si sapeva quasi nulla delle malattie genetiche. Sono uscito con tante fratture da far pensare che era meglio morire lì, nella clinica, piuttosto che sopravvivere deforme e fragile per sempre. I miei genitori non hanno voluto, mi hanno accolto come si accoglie un figlio normale. Se devo enorme gratitudine anche a mio padre, è però evidente che il rapporto con la mamma è stato più intenso, costante, decisivo. Io ricordo il suo sorriso quando ero un bimbo. Non mi ha mai guardato senza dolcezza, senza un sorriso. Ecco perché non mi sono mai sentito una persona diversa, non ho mai avuto sensi di colpa, ma al contrario ho sviluppato, nonostante l’evidenza di una disabilità fisica grave, i meccanismi dell’autostima, della normalità, della gioia di esistere.
Ha trattato il mio corpo con delicatezza e con amore, sapeva prendermi, lei così minuta, con tranquillità e sicurezza, e io mi fidavo e mi affidavo solo a lei. Ha nutrito la mia infanzia e la mia adolescenza di certezze, tenendo per sé il dolore, la paura, i sacrifici anche personali (ha dovuto interrompere l’insegnamento per lunghi anni). Io sono dunque arrivato all’adolescenza non protetto in una palla di vetro, ma costruito correttamente per affrontare, con le mie ossa fragili, una vita che non mi avrebbe fatto sconti.
Anche il rapporto con mio fratello, di due anni più grande, è stato impostato, nei limiti del possibile, all’insegna della normalità e della parità di diritti e di doveri, con una educazione sobria e “borghese”, di quella borghesia mai appariscente e non ricca, che è stata per alcuni decenni una delle realtà sociali più positive del nostro Paese. Mia mamma, insegnante di lettere, mi ha aiutato non poco a stimolare i miei istintivi interessi per lo studio e per la lettura, sono diventato ben presto onnivoro di libri, magari destinati a un’età un po’ maggiore della mia. I miei genitori non hanno mai cercato a tutti i costi un mio recupero fisico impossibile, non mi hanno costretto a esercizi fisici e riabilitativi che andassero a scapito del tempo da dedicare alla mia formazione scolastica. Mi hanno accettato com’ero, un po’ speciale, con le ossa fragili e storte, con il naso lungo, e con una parlantina inarrestabile e un po’ petulante.
Mia mamma ha costruito, senza saperlo (nel senso che nulla allora era stato teorizzato) una persona con disabilità capace di “vita indipendente”. Il legame con lei è sempre rimasto fortissimo, ma io ho potuto decidere da solo quando e come emanciparmi dalla famiglia, costruire i miei affetti, le amicizie, il lavoro, la casa, l’indipendenza economica e pratica. Ho vissuto normalmente perché ho avuto un imprinting perfetto. Un dono, anche culturale, che resta per sempre e che mi impegna a proseguire, anche adesso, che sto per compiere 57 anni, e che non ho più la possibilità di raccontare a lei, giorno dopo giorno, le mie conquiste e le mie delusioni, i miei dubbi e le mie certezze.
Sono stato un figlio fortunatissimo. Mia mamma si chiamava Rosalia Viola. Ma per tutti era semplicemente Lia. La mia piccola grande mamma.
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