Mondo

Grazie a Wojtyla l’Africano!

di Giulio Albanese

Tra poche ore Giovanni Paolo II verrà proclamato Beato. A questo proposito vorrei proporre alcune considerazioni sul suo pontificato, nella consapevolezza che mai nella storia un papa ha fatto così tanto per l’Africa, spendendosi in prima persona per la causa del Vangelo. Un’autentica maratona nel nome della fede, segnata da ben 14 viaggi nel continente, visitando 42 paesi, percorrendo in totale 208mila chilometri, pronunciando 418 discorsi e soprattutto incontrando popolazioni di fedi, lingue e culture le più diverse. Quando mise piede per la prima volta come Vescovo di Roma sul suolo africano nel maggio del 1980, c’era ancora la “guerra fredda” e il continente pativa le conseguenze dell’illusorio periodo della decolonizzazione, attraversando una stagione caratterizzata da una notevole involuzione politica, economica e sociale. E non v’è dubbio che col suo carisma, papa Wojtyla ha contributo notevolmente al riscatto del continente, lottando strenuamente contro coloro che professavano dai pulpiti della politica il peggiore dei sentimenti, quello dell’afropessimismo. Al contrario, ha sempre incoraggiato le popolazioni africane a guardare al futuro con speranza, perseverando lungo il cammino dello sviluppo, ma al contempo facendo tesoro dei valori tradizionali, come il senso della famiglia e il legame comunitario. Ma per riflettere adeguatamente sull’impatto dei suoi viaggi in Africa, bisogna prendere atto che essi avvengono in un contesto continentale estremamente variegato, non solo dal punto di vista spazio-temporale, ma anche per quanto concerne i termini delle questioni affrontate e le loro ripercussioni. Come dimenticare, ad esempio, la storica visita alla Maison des Esclaves nell’isola di Gorée (Senegal) il 22 febbraio 1992? In quella circostanza, pronunciò parole dense di significato contro “il crimine enorme perpetrato con la deportazione degli schiavi da una civiltà che si dice cristiana (…) Sappiamo cosa furono i campi di sterminio. Qui ce n’è un modello!”. Lanciò così al mondo un monito pesantissimo contro ogni forma di oppressione e in difesa della dignità umana. Altre volte, Giovanni Paolo II si pose invece come colui che intendeva profeticamente “dare voce a chi non ha voce”, come a Khartoum nel 1993. Una visita brevissima, quella nella capitale sudanese, ma che lasciò subito il segno per via della particolare situazione di difficoltà in cui si trovava la comunità cattolica. Tutto questo avvenne proprio quando il Sudan in particolare e l’Africa in generale, non sembravano affatto rappresentare una priorità nei piani editoriali della grande stampa internazionale, protesa invece su altri versanti come quello mediorientale. In quegli anni, papa Wojtyla è stato il solo grande statista, sulla scena mondiale, che ha rivelato di avere a cuore la “res publica” dei popoli, il bene comune universale, soprattutto in riferimento al destino degli ultimi, coloro che popolano le periferie africane. Nei suoi ripetuti interventi, sia in sede internazionale che a livello pastorale, ha stigmatizzato la cronica virulenza delle carestie come “politicamente inaccettabili e moralmente oltraggiose”. In particolare, dopo il crollo del Muro di Berlino (1989), Giovanni Paolo II ha reso sempre più esplicita la sua critica al modello delle società industrializzate e ipertecnologiche, spiegando con grande lucidità come il materialismo pratico renda i Grandi della Terra corresponsabili della crisi che attanaglia il continente nero. Costante l’accento che ha sempre posto nei suoi discorsi sul tema della pace, in riferimento, particolarmente, alle tante “guerre dimenticate” che insanguinano ancora vaste regioni dell’Africa, all’utilizzo dei “bambini soldato” e all’assurda proliferazione di armi in Paesi dove si muore d’inedia e pandemie. Non ha mai perso occasione, sia al termine degli Angelus domenicali come anche durante le tradizionali udienze nella Sala Nervi, di enunciare il magistero della Chiesa in difesa dei diritti umani, del rispetto dello Stato di diritto e sulla necessità della cancellazione del debito estero che pesa ancora sul destino delle nazioni africane. Sebbene ritenesse imprudente la convocazione di un Concilio tutto africano, Giovanni Paolo II ha riunito a Roma, nell’aprile 1994, l’Assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per l’Africa, svoltasi mentre in Rwanda, Paese prevalentemente cattolico, imperversava il genocidio. L’assemblea sinodale, sotto la spinta di vescovi e teologi, riesce a pronunciarsi su vari temi, proponendo, nel documento finale, nuovi sviluppi nel senso dell’inculturazione e soprattutto proponendo una concezione ecclesiologica più adeguata al modello africano della famiglia. E nel settembre del 1995, quando visita il continente per consegnare alle chiese locali l’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, la speranza del cambiamento pare ragionevolmente fondata. Il documento assume infatti, se non tutte, almeno una buona quota delle richieste espresse dall’episcopato africano, anche per ciò che riguarda la giustizia sociale, le misure in favore del riconoscimento della dignità della donna e il dialogo con la religione tradizionale africana. La fecondità dei viaggi del papa polacco s’è comunque poi misurata con la capacità delle Chiese locali di creare dei meccanismi che potessero dare seguito al suo insegnamento. Se da una parte, nella liturgia africana alcuni elementi culturali sono stati assunti (come ad esempio gli strumenti musicali, la danza, il canto); dall’altra, l’africanizzazione del cristianesimo rimane una questione aperta che esige buona volontà da parte di tutti, in riva al Tevere e nel continente. Una cosa è certa: quando il 2 aprile del 2005 si spegne Giovanni Paolo II, i cattolici in Africa erano circa 140 milioni su 830 milioni di abitanti e rappresentavano il 16,6% della popolazione. Una crescita numerica significativa se si considera che nel 1978, quando Wojtyla divenne Papa, i cattolici africani erano 55 milioni. E allora, come ha detto ripetutamente nel suo pontificato Giovanni Paolo II, citando un celebre discorso di Paolo VI a Kampala (1969), è bene che gli africani diventino, a tutti gli effetti, missionari di sé stessi, indicando peraltro ai suoi successori che la Chiesa africana ha esaurito il tempo delle tutele.

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