Politica
Grano indiano e polentone, binomio inscindibile e tutto da assaporare
A tavola con i consigli di Gino Girolomoni.
Grano indiano. Così chiamava il mais Costanzo Felici, celebre botanico di queste terre verso la fine del 1500. Formentone, invece, lo chiamavano i miei avi ed era la materia prima per la polenta e il polentone, il piatto che vorrei proporre oggi. Prima di andare a tavola, però, vorrei tracciare un breve excursus della vita di questa celebre pianta che ci viene dai nativi americani, che hanno pagato caro il nostro averli scoperti. Da noi seminavamo in aprile, zappavamo le erbacce a fine maggio e a giugno, prima della raccolta del grano. In agosto, ogni pomeriggio, strappavamo le foglie per darle in pasto alle vacche, per le quali scarseggiava l?erba. Nella seconda metà di settembre raccoglievamo le pannocchie con il biroccio e le scaricavamo nell?aia a semicerchio, perché la sera ci mettevamo tutti intorno a spannocchiare. Poi passava Turo, che aveva montato una trebbiatrice sopra una vecchia Fiat degli anni 40, e i preziosi chicchi rotondi erano pronti per farci polenta preziosamente gialla, che un paiolo nel fuoco attendeva per una lenta cottura. Polentone vuol dire che tutto il contenuto del paiolo si rovesciava sulla spianatoia della madia: era quella il piatto per tutti. Sopra questo polentone spianato, sugo di pomodori e fagioli e un leggero velo di pecorino grattuggiato. Ma i condimenti possono essere tanti: fagioli borlotti con cotiche, manzo in umido, coniglio in salmì e ceci. Un altro uso della polenta è quello con la sapa, il mosto cotto, che si versa al centro del piatto in cui è stato preparato il buco e, poi, tutti a inzupparci i pezzi di polenta prelevati dall?esterno verso il centro. Un vino? Il verdicchio di Montecarotto della cantina Moncaro.
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