Famiglia
Goma. Il Congo che spera
Qui nel 1994 si riversarono due milioni di profughi dal Ruanda. Qui nel 1996 Desiré Kabila scatenò la sua guerra.
Una lingua nera attraversa Goma. Il Nyiragongo, colui che vomita, ha riversato migliaia di tonnellate di lava sulla città, spaccandola in due. è passato più di un anno. Ma i segni della distruzione sono ancora evidenti. Destino amaro per questa città del Nord Kivu in Congo.
Nel 1994 ?l?invasione? dei profughi ruandesi, più di 2 milioni, nel 1996 l?inizio della guerra di Desiré Kabila, nel 1998 una nuova guerra ha trovato il suo risvolto più cruento proprio in questa città e lungo la dorsale del parco del Virunga al confine con il Ruanda.
La casa di Mobutu
La lava ha trascinato con sé case, abitanti, una parte dell?aeroporto, la cattedrale, fino a spegnersi nel lago Kivu che ha ribollito per giorni. Ironia della sorte non ha colpito la casa del vecchio e defunto dittatore dell?allora Zaire, Mobutu Sese Seko. Ironia della sorte per una città che non si rassegna al suo destino, che in meno di cinque anni ha visto triplicata la sua popolazione. Una città segnata, fin nel profondo, dai profughi ruandesi, che poi ha visto l?invasione delle truppe del confinante Ruanda. Oggi Goma non si rassegna. Sulla lava i suoi abitanti hanno già ricominciato a costruire case in legno, hanno ridisegnato le strade, le rotonde, un lento ritorno alla normalità di una vita in un Paese, il Congo, diviso dalla guerra e dall?odio. Ed è proprio da Goma che inizia il nostro viaggio in questo Paese ricchissimo e dimenticato dal mondo. Un viaggio, il primo del Progetto Africa un?iniziativa promossa dal Wwf, da Coopi e dal Premio Giornalistico Ilaria Alpi. Un viaggio per ricordare al mondo che qui 54 milioni di abitanti vivono nella miseria e nel terrore. Un viaggio per cercare, nelle pieghe della disperazione, quei pochi rivoli di speranza e di pace che fanno dire a Bisidi Yalolo, responsabile del Wwf di Goma: “Vedete i fiori che piantiamo? Belli No?”.
Sì, quei fiori, quelle donne curve sulla lava a piantarli, sono uno dei segni più evidenti di una rinascita di una città che ha deciso di tornare a vivere e di dare un senso anche alla lava che ha bruciato tutto. Bisidi Yalolo la ricorda bene la guerra, ne ha subito le conseguenze, è dovuto scappare nella foresta, è ritornato per proseguire un lavoro iniziato nel 1987. Una bomba ha centrato il suo ufficio e allora la fuga disperata. Lo hanno dato per morto finché non l?hanno visto ricomparire a Goma.
“L?epoca era quella della prima guerra di Kabila”, ci racconta Bisidi. “Da Goma chiediamo a Nairobi il da farsi. è scoppiata la guerra, dicevo, loro mi hanno risposto aspettate. Ma una bomba è piovuta diritta sulla nostra sede. Allora sono scappato e ho camminato per 16 giorni percorrendo più di mille chilometri e sono arrivato a Kisangani. A Goma mi davano per morto. Poi sono tornato quando la bufera si è conclusa”.
è tornato e ha ripreso il suo lavoro di conservazione ambientale, di salvaguardia dei gorilla di montagna. Ma a che serve, quando c?è un intero popolo che muore? “Il problema”, continua Bisidi, “non è certo quello di interessarsi solo della natura o dei gorilla. Il problema è capire che la natura deve essere protetta ed è una risorsa per la gente”. I progetti, infatti, del Wwf, sono rivolti alla riduzione dell?impatto dell?uomo sul parco dei Virunga. Come? Mettendo in campo progetti di sviluppo sostenibili per la gente del parco.
Qualche sorriso
Nel villaggio di Rubare, nel Rutshuro, è una festa quando ci vedono arrivare. Per la prima volta in cinque anni, dei bianchi si avventurano nella zona. Soldataglia, banditi, retroguardie degli eserciti occupanti, quello del Ruanda, imperversano ancora nella zona. Non è più guerra sistematica, ma saccheggio. Ciò che è accaduto pochi giorni prima del nostro arrivo, una ventina di morti, rende ragione di una situazione ancora di tensione.
Qui a Rubare è in atto un progetto di sviluppo sostenibile a vasto raggio. L?obiettivo è quello di creare una demarcazione tra il parco e la zona agricola, attraverso una serie di attività: produzione di legno per uso energetico alternativo al prelievo nel parco, sviluppo di attività agricole per l?arricchimento del suolo e l’approvvigionamento di generi alimentari, l?allevamento. Ma non solo. Sono stati creati laboratori di sartoria e una scuola di alfabetizzazione. Un modello sperimentale che si sta applicando in molti villaggi. “Abbiamo prodotto e piantato sei milioni di piante”, ci racconta orgoglioso Bisidi.
è strano questo Congo. Percorrendolo da Est a Ovest, ti butta in faccia una bellezza mozza fiato e una disperazione, una povertà, che sono altrettanti pugni nello stomaco. Un Paese ancora diviso. Un congolese di Goma per chiamare un familiare a Kinshasa, capitale del Paese, deve comporre il prefisso telefonico internazionale del Congo, è come chiamare in Italia. Sì, perché a Goma il prefisso telefonico è quello del Ruanda, paese occupante.
Non solo. Le banconote da 100 e 50 franchi congolesi valgono solo nella capitale, a Goma sono carta straccia. Il dollaro vale 420 franchi congolesi a Kinshasa, 300 nel nord Kivu. Nei villaggi della foresta 260. Un paradosso tutto africano. E la foresta non è stata risparmiata dalla guerra. Ed è proprio qui che si vive il contrasto più forte tra la natura e la condizione della popolazione.
Una vita in piroga
Tutto si muove sulle piroghe: persone, merci e povertà. Il nostro aereo atterra su una striscia di terra rossa lungo il fiume Tshuapa. Centinaia di persone si assiepano intorno alla baracca dell?aeroporto. Salutano e sanno che con noi arrivano anche i volontari di Coopi che nella zona, che va da Boende a Ikela, si sono occupati di ridare dignità al sistema sanitario locale. Non c?era nulla. La guerra ha distrutto ogni cosa. L?ospedale di Ikela è stato reso funzionante da poco. Era diventato una base militare, come le scuole della zona. Sulle pareti ci sono i segni della battaglia: i colpi di mortaio, ma anche i graffiti dei militari che vi alloggiavano, che raccontano le scene della guerra, le battaglie, i comandanti e le armi.
Tutta la zona, anche intorno all?ospedale, è un campo minato. Un militare della Monuc, la missione dell?Onu, ucraino, non parla la lingua locale e nemmeno il francese (la gente lo capirà?), ci porta dall?aeroporto all?ospedale. Martino Destefanis, responsabile del progetto di Coopi, suggerisce: “Meglio proseguire a piedi”. L?ufficiale ucraino si domanda il perché. Martino gli risponde: “Ci sono le mine”. Ci fermiamo a un centinaio di metri dall?ospedale. Mine ovunque. I bambini giocano tra un ordigno e un altro. Ma la zona non è stata mappata e nemmeno sminata. Gli ordigni sono ancora visibili e, drammaticamente, pronti a esplodere. La mappatura l?ha fatta direttamente la gente.
“Dovevo riaprire gli ospedali e i centri di salute di Boende e Ikela, nel cuore della foresta”, ci racconta Matteo Frontini di Coopi. “L?unico modo per arrivare in queste zone era la piroga seguendo il corso del Tshuapa. Affitto una piroga e dopo sei giorni di fiume, dormendo in barca, arrivo a Boende”.
Il Livingstone del 2000
Ma il viaggio non finisce lì. Bisogna arrivare a Ikela. La strada è pericolosa e soprattutto, ormai, non esiste più. è un sentiero in mezzo alla foresta. “Ad Ikela la guerra è passata pesantemente. Prendo con me un congolese che conosce la pista. Carico due moto con tutto il materiale possibile e partiamo. Una settimana aprendoci la strada con il machete e guadando i fiumi con sistemi di fortuna. Infilavamo dei tronchi di bambù tra le ruote, consentendo alle moto di galleggiare, così da non perdere il materiale che avevamo con noi”. Ora Matteo Frontini è impegnato nell?apertura della base di Coopi a Kindu, altra zona ancora a rischio guerra del Congo. Quando torna a Boende o Ikela la gente lo chiama il Livingstone del Duemila.
“La gente non aveva più nulla”, ricorda Matteo. “Ci abbiamo impiegato tre mesi a rimettere in piedi il sistema dei dispensari e l?ospedale, ma c?è ancora molto da fare”. Sono arrivate le medicine, i reparti hanno ricominciato a funzionare. E come sempre in queste circostanze così disperate, il centro è diventato un punto di riferimento per tutta la popolazione. Per cinque anni è mancato tutto. I reparti sono pieni, 50 posti letto. La gente, ora, si può curare. Prima? Nulla. Le stesse malattie oggi si curano, ieri erano ragione di morte sicura. Malattie anche banali come quelle sessualmente trasmissibili, banali influenze o la più grave rosolia o la filariosi. Ora è in corso un?epidemia di monkhey pox, provocata dalla scimmia. La gente si nutre di questa carne malata. In molti sono in cura nel reparto di isolamento, prima morivano come cani nella foresta.
“L?inizio dell?attività è stato duro”, dice Matteo. “Le persone non venivano in ospedale a prendere le medicine. Non capivamo il perché. La risposta che abbiamo avuto è stata semplice: si vergognava. Non aveva nulla e nemmeno i vestiti per coprirsi”.
L?inferno di Kinshasa
Se Goma sta lentamente riprendendo a vivere, la capitale del Congo, Kinshasa, è invece il simbolo della disperazione. In dieci anni la popolazione è raddoppiata passando dai 4 milioni stimati nel 1993 agli 8 di oggi, ma c?è chi dice che siano anche 12.
Intanto nei palazzi, quelli del governo, si discute del futuro. Le varie fazioni in conflitto mercanteggiano un posto, le poltrone si moltiplicano senza necessità, per accontentare questo o quello. Nei palazzi delle organizzazioni internazionali, l?Onu, le discussioni vertono sul come tamponare la situazione drammatica nella regione dell?Ituri.
A Kinshasa la vita si muove intorno a un principio, non sancito dalla costituzione, ma che tutti indicano come l?articolo cinque, e cioè: “Il faut se débrouiller”, bisogna arrangiarsi. Un motto, introdotto dal vecchio dittatore Mobutu. Tutti, proprio tutti, si arrangiano. Non c?è alternativa. Chiediamo un?intervista al presidente Joseph Kabila. Il nostro mediatore ci risponde che occorrono 5mila dollari. I palazzi del potere sono lo specchio del Paese.
Tutto si compra e tutto si vende. Il faut se débrouiller.
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