Mondo

Globalizzazione: se anche Bush capisce che così non va

L’11 settembre segnerà una svolta anche per il processo di globalizzazione. I commenti di Paganetto e Ferro

di Francesco Maggio

Benvenuti nel club di chi l’aveva detto di Gabriella Meroni Riduzione del debito estero, lotta al riciclaggio, erosione dei privilegi concessi ai paradisi fiscali. Sembravano solo utopiche richieste del movimento new global, irrealizzabili in questa società dominata dalla globalizzazione e dal profitto ad ogni costo. E invece, in pochi giorni, tutti questi provvedimenti sono stati varati dal governo americano, che così ha voluto sferrare i primi, duri colpi al terrorismo internazionale. È l?inizio di una nuova era, in cui valori come ridistribuzione e uguaglianza la faranno da padroni? Una seconda possibilità data all?11 settembre, che potrebbe essere ricordato non più solo come un giorno luttuoso, ma anche come l?inizio di un ripensamento economico globale, che insieme alle ragioni della sicurezza consideri quelle di sviluppo e democrazia? Forse è presto per rispondere. Una guerra che ogni giorno è sul punto di scoppiare non è la migliore situazione per ragionare a mente fredda sulle cifre. E alcuni segnali non sono confortanti, come l?ultima analisi della Banca Mondiale, che il 2 ottobre ha rivisto al ribasso le stime dello sviluppo, decretando che nel 2002 dieci milioni di persone in più scivoleranno nella miseria. Eppure le decisioni senza precedenti di Bush, che ha promesso di cancellare il debito estero di Pakistan e India, indagare sui movimenti finanziari off-shore e bloccare i conti di organizzazioni sospettate di fare affari con i terroristi sono lì, e ridanno fiato a un ottimismo impensabile soltanto a luglio, dopo i disastrosi risultati del G8. Abbiamo chiesto a un economista esperto di temi di sviluppo come Riccardo Moro, già capo della Commissione Cei per la riduzione del debito, di dire la sua. «I fatti dell?11 settembre hanno dato una scossa alla visione occidentale dell?economia», esordisce Moro, «mettendo in drammatica evidenza che forti squilibri economici creano devastanti squilibri politici. Senza instaurare rapporti diretti tra terrorismo e povertà, che non esistono, è certo però che ora siamo costretti a interrogarci su chi non partecipa al nostro sviluppo». I convitati esclusi dalla festa globale? «Proprio loro. E non è detto che li si debba aiutare per filantropia. Anche Bush, che non è un missionario, ha capito che o si costruisce un percorso per portare i poveri al nostro livello di benessere, o non avremo mai la tranquillità. L?altro elemento che mi colpisce positivamente è che le ultime iniziative del governo americano ricalcano le nostre richieste. Di fronte alla gravità degli eventi, si è capito che India e Pakistan non erano liberi di collaborare alla democrazia mondiale a causa dell?ostacolo del debito, e che il terrorismo utilizza le pieghe nascoste del sistema finanziario, e si è deciso finalmente di fare qualcosa di concreto». Non vede un po? di opportunismo in tutto questo? «Certo, ma non importa. Conta il risultato. Spero che si continui su questa strada, e che la possibile contrazione dei consumi, derivante da un?economia di guerra, non metta a rischio gli aiuti allo sviluppo. Risparmiare in questo settore, alla luce dell?analisi che abbiamo condotto fin qui, sarebbe molto, molto miope». Luigi Paganetto La finanza si darà regole Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale sono sotto accusa da tempo. Gli esiti deludenti delle politiche a favore dei Paesi in via di sviluppo sono al centro del dibattito sulla riforma della governance dei grandi organismi finanziari. E lo stesso Wto, l?organizzazione mondiale del commercio, incontra forti ostacoli a svolgere il ruolo di paladino della libertà degli scambi. Ma l?attentato alle Torri segna un punto di non ritorno: o si volta pagina, coinvolgendo la società civile e puntando verso una regolamentazione dei contratti privati, oppure il loro destino è segnato. Luigi Paganetto non ha dubbi. Il preside della facoltà di economia dell?Università di Tor Vergata a Roma, ordinario di Economia internazionale, in libreria in queste settimane con La Banca mondiale, dalla ricostruzione allo sviluppo (edizioni Il Mulino), ritiene che il tempo delle scelte sia davvero arrivato. «Le istituzioni finanziarie internazionali hanno mostrato non pochi limiti nel perseguire la loro mission, che è contribuire al miglioramento delle condizioni socio-economiche dei Paesi poveri. Le ragioni alla base di tali insuccessi sono molteplici, ma ve ne sono almeno tre che spiccano sulle altre. Innanzitutto», spiega Paganetto, «spesso le politiche di intervento sono definite a tavolino, senza tener conto della reale capacità di implementazione dei territori nei quali avrebbero dovute essere realizzate. E, quindi, senza badare a spese. Inoltre, si è confidato in maniera eccessiva sulle virtù taumaturgiche del libero commercio. Gli economisti sostengono che ogni volta che c?è un aumento degli scambi, si assiste a un incremento del benessere. Ci sono, cioè, vantaggi per tutti. Ma non sempre è vero, se questi vantaggi vanno solo in parte ai Paesi destinatari degli interventi di liberalizzazione degli scambi, per esempio per colpa di qualche funzionario corrotto. Infine, una delle peculiarità della globalizzazione è la prevalenza dei contratti privati sugli ordinamenti statuali. Ma non essendoci una governance internazionale sui contratti privati, è difficile gestirne le conseguenze. E a farne le spese sono i Paesi più poveri. Ebbene», conclude Paganetto, «dopo l?11 settembre tutto questo è destinato ad aggravarsi». Perché? «L?incertezza causata dai fatti di New York provoca una contrazione degli scambi. Le risorse a disposizione degli aiuti allo sviluppo sono destinate a ridursi. Il Wto, organismo più adatto a regolamentare i contratti, oggi è più che mai in deficit di legittimazione». Come uscirne? «Attraverso un ?bagno? di società civile», risponde Paganetto. «Il Wto può svolgere un ruolo di raccordo e mediazione tra mercato, Stati e istituzioni finanziare internazionali. Ma ha bisogno di una legittimazione che passa da un coinvolgimento». E come dare nel frattempo fiducia alla globalizzazione, per dirla come l?economista Jeffrey Sachs? «La fiducia nasce dalla riduzione dell?incertezza», dice Paganetto, «e l?incertezza si ridurrà se la reazione agli attentati sarà limitata e circoscritta». Angelo Ferro Lo sviluppo è al punto terminale La globalizzazione, così come l?abbiamo conosciuta finora, non ci sarà più. Una generalizzata riduzione dei consumi, soprattutto relativa ai beni di lusso e all?intrattenimento, a fronte di un loro spostamento verso beni rifugio (case e metalli preziosi), comporterà un rallentamento dei flussi finanziari. Le imprese, quindi, porranno un?attenzione maggiore alla riduzione dei costi e ciò potrà avere ripercussioni sociali. Ma il post 11 settembre potrà rivelarsi anche una straordinaria opportunità per le imprese per riorientare le proprie strategie nella direzione di una maggiore responsabilità sociale. Sta a loro accettare la sfida». Angelo Ferro, professore di Politica economica internazionale all?università di Verona e imprenditore da 200 miliardi di fatturato del ricco Nord Est, è preoccupato sulla capacità di tenuta del sistema industriale. «L?incertezza generalizzata che circonda il mondo delle aziende», sostiene «può indurre, nella migliore delle ipotesi, a procrastinare gli investimenti. Nella peggiore, a licenziare». Ma, nello stesso tempo, è fiducioso sulla capacità degli imprenditori di saper percorrerre, nei momenti di emergenza, vie inedite allo sviluppo. «La terribile tragedia di New York», spiega Ferro, «non ha fatto altro che mettere in evidenza le difficoltà nelle quali già si trovava il sistema economico statunitense. E, di conseguenza, quello europeo, visto che buona parte della nostra produzione è alimentata dalla domanda americana. Del resto, un segnale inequivocabile lo si era avuto all?inizio dell?anno, con una diffusa contrazione del mercato pubblicitario. L?attacco, quindi, ha amplificato quelle difficoltà che oggi quasi tutti, senza giri di parole, chiamano con il loro nome: recessione. Ha provocato, poi, l?incremento di costi concernenti servizi legati, per esempio, alla sicurezza. L?aumento dei controlli comporta a sua volta un rallentamento della circolazione di merci e persone e quindi le imprese, per poter stare sul mercato, devono riqualificare l?offerta». Come? «Le strade sono due», afferma Ferro. «La prima, di tipo difensivistico, è quella di tagliare i costi e mettersi, dove possibile, come in Italia, nelle braccia dello Stato. L?altra strada, più impervia ma storicamente più sensata, è invece quella di cogliere questa difficoltà per fare un?inversione di rotta. Le imprese dovrebbero capire che ormai la propensione all?acquisto dei cittadini è ai livelli massimi. Che oggi i consumatori comprano sempre più spesso non solo il prodotto in sé, ma anche la storia dell?azienda che lo produce, e che certe biografie aziendali, in termini di disinteresse per ambiente, qualità della vita, condizioni dei lavoratori, non sono più sostenibili. De Rita parla di ?punto terminale?. Ecco allora», conclude Ferro, «che in presenza di simili condizioni può entrare in scena, da protagonista, la solidarietà. E cambiare la globalizzazione, fondata sul consumo, in un sistema incentrato sulle relazioni. Si tratta di un cambiamento difficile. Ma mi auguro che avvenga».


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