Non profit

Gli ulivi di Peppino

Giovanni Impastato in provincia di Bergamo per un gesto simbolico contro vandali e sindaci smemorati

di Daniele Biella

Giovanni Impastato, 57 anni, sposato e padre di due figli, è il fratello di Giuseppe ‘Peppino’ Impastato, ucciso da sicari della mafia il 9 maggio 1978 per il suo impegno civile contro Cosa nostra. Dalla morte del fratello, rimasta per molti anni impunita, Giovanni è diventato ‘testimone degli ideali di Peppino’, e oggi gira l’Italia a portare il suo messaggio di lotta a ogni criminalità organizzata. Da mercoledì 10 a venerdì 12 febbraio arriva in provincia di Bergamo, su invito della Tavola della pace Valle Brembana, per un ciclo di incontri con i cittadini e le scuole dei Comuni di Almè, Zogno, San Pellegrino Terme, Lenna, Villa d’Almè, Ubiale e Clanezzo (clicca qui per il programma). In particolare, uno dei momenti più significativi sarà, tra giovedì e venerdì, la posa di cinque ulivi nei parchi pubblici di altrettante cittadine bergamasche, in risposta all’atto vandalico avvenuto il 27 settembre 2009 nella vicina Ponteranica, quando ignoti avevano divelto l’ulivo posto davanti alla biblioteca. Proprio qualche giorno prima, l’edificio era stato al centro di una forte polemica, generata dalla decisione del primo cittadino del paese bergamasco (in quota Lega nord) di togliere alla biblioteca l’intitolazione a Peppino Impastato. Vita.it ha raggiunto Giovanni Impastato alla vigilia del viaggio da Cinisi, dove vive, ai paesi in provincia di Bergamo.

Che significato hanno la sua presenza in terra bergamasca e la messa in posa di nuovi ulivi dedicati a suo fratello?

Arrivo volentieri in quella zona perché c’è tantissima gente che ha dato a me e alla mia famiglia dimostrazioni d’affetto, il che sta a smentire quanto successo a Ponteranica. Sono risposte di civiltà, di democrazia, che alimentano la memoria storica. Bisogna costruire il nostro futuro proprio sul ricordo di quanto è successo, e la vicenda di Ponteranica è stata definita da me e molti altri un’azione criminale: chi vuole cancellare la memoria storica di questo paese commette un grave crimine. Molta gente che vive nel bergamasco ha condannato questa azione e sotto certi aspetti si è sentita anche offesa, perché non è giusto togliere un’intitolazione a una persona che è stata uccisa per aver tentato di migliorare le sue condizioni di vita e quelle di degli altri. La gente è consapevole che la mafia è presente anche a Nord.

Il binomio mafia-Sud quindi non basta più?

La mafia non è solo un problema che riguarda le quattro regioni ‘sfigate’ del Meridione. Piuttosto, è un problema nazionale, che ha colpito tutto il tessuto sociale. A Nord i segnali negativi ci sono eccome, nel bergamasco come in Piemonte, in Veneto e altrove: non è un caso che anche da quelle parti siano stati confiscati numerosi beni appartenuti a Cosa nostra e alle altri organizzazioni criminali. Poi sono convinto che l’illegalità, l’abusivismo, l’usura, l’inquinamento, il riciclaggio di rifiuti tossici che dal Nord arrivano a Sud, lo scempio contro il territorio siano tutti parte di un contesto mafioso.

Come è finita la vicenda del nome della biblioteca di Ponteranica?

Non è ancora terminata. Abbiamo protestato e fatto ricorso al Tar, siamo in attesa, ad oggi la biblioteca ufficialmente non porta più il nome di Peppino Impastato. Qualcuno è andato a ripiantare l’ulivo, a mettere una targa abusiva, ma manca l’ufficialità, il sindaco non ha fatto marcia indietro. Ma una cosa positiva c’è: in reazione a quanto ha fatto il primo cittadino, si è creato un movimento di sindaci democratici che hanno a loro volta intitolato varie biblioteche a Peppino. Per esempio in provincia di Brescia ce ne sono due, a Paderno Franciacorta e Bovezzo. Poi sei tra Roma e Lazio, poi a Crotone, anche in Sicilia, tutte in risposta al fattaccio di Ponteranica.

Trentadue anni dopo la sua morte, cosa significa per lei oggi essere “fratello di Peppino”?

Il mio è un ruolo importante, ma difficile. È pesante raccogliere questa eredità. Detto questo, ho un unico obiettivo, senza retorica: trasmettere soprattutto alle nuove generazioni il messaggio di Peppino, che è un messaggio di rottura, di impegno civile e anche molto educativo. Io all’inizio ero imbarazzato, era arduo calarmi in questo ruolo. Da quando poi ho visto la vicinanza della gente e ricevuto gli attestati di stima e di incoraggiamento, mi sento più gratificato e molto meno isolato che in passato. Sono sincero: ho fatto sacrifici, qualche ferita non si è rimarginata, ho impiegato anni alla ricerca della verità ma ho ricevuto anche grandi soddisfazioni, lo riconosco. Come testimone dell’impegno antimafia di mio fratello, vedo attorno a me tantissime persone che mi apprezzano, è una cosa meravigliosa.

Quali sono le sue “ferite”?

Il dolore per la perdita di Peppino, e per quella dei miei genitori, di mio padre. La rottura mia e di mio fratello con nostro padre e con la nostra famiglia è stata una ferita molto forte: rompere con il padre non è stata una mancanza d’affetto, ma un rifiuto di una mentalità, perché mio padre, come mio zio, era mafioso. Noi non condividevamo il loro asservimento alla mafia, la nostra era invece una scelta di libertà e democrazia.

Come vanno le attività alla Casa memoria, la vostra casa natale oggi diventata museo?

Sta lavorando molto bene, è un luogo che è aperto a tutti da ancora prima della morte di mia madre, nel 2004. Era lei che riceveva gli ospiti. Un mese dopo la sua morte l’abbiamo aperta ufficialmente al pubblico, e ogni giorno riceviamo tantissime visite. E’ la celebre casa che dista cento passi da quella del boss Badalamenti. Io vivo sempre a Cinisi, da un’altra parte. La Casa memoria è anche la sede dell’associazione Peppino Impastato, ente a cui dedico gran parte delle mie giornate.

 

Nella foto, Giovanni Impastato a Monza nella via dedicata al fratello Peppino.


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