Welfare

Gli schiavi del made in Usa

Le grandi firme accusate da 50 mila cinesi che con il miraggio dei dollari si sono ritrovati a Saipan a lavorare in condizioni disumane.

di Carlotta Jesi

C ento ragazzini cinesi in uno scantinato buio, donne anziane chine su una macchina da cucire e ciccioni con gli occhi a mandorla con una bottiglia di whiski in mano. Chi avrebbe il coraggio di portarseli in giro stampati sulla camicia, la borsa, gli occhiali o i sandali da spiaggia? Prima di rispondere ?nessuno?, girate l?etichetta di vestiti e accessori che avete addosso. Sì, perché desolazione, schiavitù e povertà sono proprio l?altra faccia di quel rassicurante ?made in Usa? che troneggia sulla vostra maglietta. Perché l?America trendy, quella del giocatore di polo di Ralph Lauren, dei ragazzi belli e biondi di Tommy Hilfiger e delle modelle irraggiungibili di Calvin Klain e Gap è in realtà un isolotto del pacifico in cui centinaia di schiavi cinesi, coreani e filippini cuciono i capi che tanto orgogliosamente compriamo anche qui in Italia. Esposti nelle migliori boutique del Bel Paese ma fabbricati a Saipan. Un?isola delle Marianne del Nord di proprietà degli Stati Uniti dove la maggior parte delle ?grandi firme? americane ha installato le sue fabbriche di produzione. E dove impresari cinesi e coreani senza scrupoli avrebbero continuato ad arricchirsi indisturbati se un gruppo di associazioni non profit americane impegnate nel campo dei diritti umani e nella difesa dei consumatori non avessero raccolto migliaia di testimonianze e denunce depositate a gennaio davanti alla giustizia americana. Inaugurando così il primo grande processo contro i giganti dell?abbigliamento ?made in Usa? accusati non solo di aver ingannato i clienti di mezzo mondo sul reale luogo di fabbricazione dei loro prodotti ma anche di aver ridotto in schiavitù moltissime persone. Proprio quelle che hanno affidato alla Global Exchange di San Francisco, l?associazione non profit famosa per i suoi attacchi alla Nike e il successivo aiuto fornito alla grande azienda di abbigliamento per ?risanarsi? , documenti e confessioni oggi presentate come ?prove? del processo contro ben 22 fabbriche di Saipan. Ad accusarle, in nome delle moltissime parti lese, è un nutrito gruppo di avvocati che negli ultimi anni ha vinto grandi cause contro le lobby del tabacco e ha recentemente ottenuto dalle maggiori banche svizzere un risarcimento di 1,2 miliardi di dollari per le vittime dell?Olocausto. Il principale atto d?accusa, sottoscritto da 50 mila cinesi immigrati a Saipan, esige la riparazione dei maltrattamenti e delle pressioni psicologiche subite in oltre 10 anni di lavoro, il rimborso dei salari mai versati e la compensazione per essere stati attirati nell?isola della schiavitù, come è stata ribattezzata Saipan, con l?inganno. Per l?esattezza con una campagna pubblicitaria ingannevole trasmessa alla televisione cinese e indirizzata principalmente ai giovani senza lavoro che recitava così: «Vieni a Saipan, America, e ti arricchirai insieme a tutta la famiglia». A chi abboccava, raccontano le testimonianze raccolte dalla Global Exchange, veniva chiesto di anticipare 5 mila dollari per le spese di viaggio e il primo anno di contratto. Denaro per cui gli aspiranti lavoratori si indebitavano con i loro datori di lavoro ancora prima di conoscerli e diventavano veri e propri schiavi. Nella maggior parte dei casi senza un regolare salario, con terribili ritmi di lavoro da sostenere e copri fuoco assurdi da rispettare. «Il tutto», spiega Medea Benjamin dell?associazione Global Exchange, «sotto l?occhio poco vigile e molto connivente delle autorità cinesi». A differenza dei governi di Manila, del Nepal e dello Sri-lanka che dal 1995 hanno bloccato le partenze di giovani in cerca di fortuna verso l?isola delle Marianne, quello cinese li incentiva. Facendo giurare ai suoi cittadini in partenza per Saipan di non intrattenere relazioni con gli americani e di rispettare gli orari di lavoro imposti. Chi vincerà il processo? Per il momento è presto per dirlo. L?unica cosa certa è che Gap, Levi Strauss, Ralph Lauren e tanti altri stilisti americani sono corsi ai ripari ingaggiando un?associazione di San Francisco, la ?Business for Social Responsibility?, col compito di mettere un po? d?ordine nelle loro fabbriche di produzione. «Una mossa tardiva e certo mirata a risanare l?immagine dell?azienda», commenta Medea Benjamin, «ma che se porterà le altre aziende a dotarsi di un Responsabile sociale, come ha fatto la Nike, sarà comunque un passo avanti». E soprattutto un buon esempio per le altre aziende. «?Attacchiamo? sempre aziende leader del settore», aggiunge la Benjamin, «per due motivi: è più facile ottenere maggiori stipendi per i dipendenti se le aziende hanno ottimi fatturati e anche i concorrenti più piccoli ne seguono l?esempio». Proprio come ha fatto la Reebook, che per non perdere troppe lunghezze, ha copiato dalla Nike l?idea di un responsabile sociale e ora ha un vice presidente responsabile dei diritti umani. Nike,dalle stalle alle stelle Un Responsabile sociale, porte aperte ai ?controllori? di associazioni dei consumatori e dei diritti umani, trasparenza sui luoghi di fabbricazione dei prodotti e tutela dei dipendenti. Signori e signori ecco a voi la nuova Nike. Prima additata come emblema dell?azienda sfruttatrice con pubblicità ingannevole e ora proposta come esempio di ?politically e socially correct? dai suoi stessi accusatori. Cosa è successo all?azienda che sfruttava i bambini del Pakistan per produrre le scarpe sportive con la famosa virgola? A spiegarlo è la Global Exchange di San Francisco, una delle associazioni di consumatori più attive nella campagna di boicottaggio contro la Nike iniziata nel giugno 1996, che oggi riconosce i passi avanti fatti dall?azienda americana. «La Nike ha iniziato a cambiare quando le vendite sono cominciate a calare. È stato nominato un vice direttore (Corporate Responsability), responsabile di controllare il rispetto dei diritti umani in tutti gli stabilimenti di produzione del mondo che ha un potere reale dentro l?azienda e un suo budget», ci spiegano gli attivisti dell?associazione. Solo un?abile mossa di marketing? Alla Global Exchange dicono di no e precisano: «Con la Nike abbiamo adottato il boicottaggio perché avevano un profitto di 824 milioni di dollari. Voglio dirlo agli italiani, ci sono state e ci sono aziende ben peggiori ma l?arma del boicottaggio bisogna usarla contro i leader e le aziende ben sane, altrimenti ci sono altre vie di lotta». Oggi alla Global sperano di raggiungere gli stessi risultati con altre aziende leader, le ?firme? del ?made in Usa? come Gap, Levi Strauss e altri.


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