Sostenibilità
Gli italiani che consumatori sono?
Il "consumo critico" la nuova frontiera dello shopping. Intervento di Michele Micheletti, docente di Scienze Politiche all'Università di Stoccolma, in Svezia
di Redazione
Quando compriamo un’auto, i mobili per il salotto di casa, un vestito o un barattolo di fagioli, che cosa pensiamo? All’acquisto del prodotto, non c’è dubbio, ma anche a qualche altra cosa. Lo spiega bene Michele Micheletti, docente di Scienze Politiche all’Università di Stoccolma, in Svezia, che da anni ha incentrato le proprie ricerche internazionali sul “critical shopping”, ossia il consumo critico, fenomeno socioeconomico emergente, a cui si stanno interessando nel mondo esperti di diverse discipline, dagli economisti ai politologi, dai conoscitori del marketing a chi si occupa di storia delle idee.
“Le spese straordinarie, ma anche quelle ordinarie – dice la studiosa – implicano una riflessione che va oltre semplici considerazioni di gusto e convenienza. Ragioni di tipo sociale, etico e politico possono influenzare la scelta di un prodotto e, persino, del punto di vendita in cui effettuare l’acquisto”.
Alcuni negozi possono attrarre più di altri per posizione o possibilità di acquisto (il caso della grande distribuzione contro i negozi al dettaglio). Magari siamo interessati a sapere dove e come il prodotto è stato realizzato, se contiene sostanze dannose per la salute o per l’ambiente, oppure a chi c’è dietro (grandi compagnie, piccoli artigiani) e anche a coloro che lavorano per realizzarlo (si tratta forse di minori sfruttati) e così via.
Acquistare, insomma, comporta più di semplici considerazioni economiche, come il rapporto qualità/prezzo. “Esistono questioni sociali, etiche e politiche integrate nelle decisioni di acquisto -sottolinea la docente- al punto che oggi lo shopping può essere considerato una forma di impegno dei cittadini nella vita politica”.
La maggior parte dei consumatori, però, continua a dare per scontato che le merci siano realizzate in accordo “con i propri standard etici o, forse, non gliene importa veramente”. In effetti, le ‘politiche’ che stanno alla base di un prodotto sono latenti o invisibili.
Escono da questa condizione “solo quando singoli cittadini o associazioni attribuiscono un significato e un valore pubblico a beni e servizi, iniziando a interrogarsi su quale sia il rapporto tra questi prodotti e la propria filosofia di vita”.
“Io non sono una cosa e la mia spesa un’altra cosa. La mia spesa sono io”. A sostenerlo non è la famigerata casalinga di Voghera, ma un celebre poeta americano dell’800, Ralph Waldo Emerson. Emerson, che fu anche filosofo e saggista, non teme affatto di occuparsi di cose modeste frugando nella borsa della spesa, e aggiunge: “Che la nostra spesa e il nostro carattere siano due, è il vizio della società”.
“La mia spesa sono io” definisce con precisione il cosiddetto “consumo critico”, la pratica di organizzare le proprie abitudini di acquisto in modo da accordare una preferenza ai prodotti che posseggono determinati requisiti di qualità, differenti da quelli comunemente riconosciuti dal consumatore medio.
Il “consumatore critico”, in particolare, diverso dal “consumatore ‘lifestyle'” che compra al solo scopo di definire e valorizzare la propria identità, riconoscerà come componenti essenziali della qualità di un prodotto alcune caratteristiche delle sue modalità di produzione, come la sostenibilità ambientale del processo produttivo, l’eticità del trattamento accordato ai lavoratori, le caratteristiche dell’eventuale attività di ‘lobbying’ politica dell’azienda produttrice.
La pratica del consumo critico si distingue dall’adesione ad una specifica campagna di boicottaggio, anche se può coesistervi, in quanto atteggiamento con motivazioni e conseguenze piu’ generali.
La possibilità di utilizzare la propria posizione di consumatore per perseguire fini politici o etici, presuppone il diritto di poter scegliere tra diversi prodotti, nonchè la conoscenza di tutte le informazioni necessarie a compiere una ‘scelta consapevole’. Volendo fare un’analogia tra il consumatore e il lavoratore, questi diritti corrisponderebbero al diritto di sciopero e alla sindacalizzazione.
Mentre un’altra analogia, proposta spesso dagli esperti di settore, è quella tra consumatore ed elettore, per cui un possibile slogan è: “voti ogni volta che fai la spesa”.
Ma il consumo critico non fa riferimento solo agli acquisti di beni materiali: il termine può riguardare anche scelte inerenti al risparmio (finanza etica) e all’uso di servizi, come i trasporti o le telecomunicazioni, con tutto ciò che ne consegue. Un fenomeno, dunque, che oggi gioca “un ruolo sempre più importante nella società”, precisa ancora Micheletti, che si occupa di fenomeni di partecipazione e coinvolgimento attivo dei cittadini nella vita democratica, ed è autrice di un recente saggio dedicato al “Critical Shopping. Consumi individuali e azioni collettive”, appena tradotto da Franco Angeli Editore (pp. 234, euro 34).
La globalizzazione, infatti, ha reso possibili modalità inedite di associazione tra individui, rendendo più difficile alle aziende occultare le politiche relative ai propri processi produttivi. Campagne per la certificazione dei prodotti e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica hanno costretto le imprese a rendere esplicite queste politiche. Internet ha facilitato e accelerato il processo, ma anche mezzi più tradizionali -dai libri alle campagne di boicottaggio- hanno incoraggiato alcune multinazionali a sviluppare codici di condotta in grado di recepire le sempre più diffuse preoccupazioni sociali, etiche e ambientali.
L’espressione “consumo critico” nasce a metà degli Anni Novanta in Danimarca e, insieme a concetti come “cittadino-consumatore”, “etica degli affari” e “investimento socialmente responsabile”, definisce i confini di un trend in rapida crescita e di forte impatto sulle sorti economiche di brand e singoli prodotti. Un interesse che nasce ora, in quanto la politica sta entrando nel mercato “attraverso il portafoglio dei consumatori e le organizzazioni al loro servizio”, come evidenzia Micheletti, ma anche perché coglie il nuovo ruolo che i consumatori possono esercitare, e in special modo le donne, una volta compreso come “i prodotti non siano solo oggetti di uso e consumo materiale”.
E in Italia a che punto siamo? “Il consumo critico è un’etichetta piuttosto ampia, che comprende l’equosolidale, il biologico e molto altro. Rappresenta un segmento articolato, in cui ci sono dei consumatori consapevoli del proprio ruolo e dei propri diritti, guidati da principi etici, ispirati da valori di tipo morale, ma che hanno a che fare anche col rispetto ambientale o, sul versante personale, della salute”, risponde Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia.
“Attualmente in Italia questi consumatori sono una minoranza della popolazione, perché noi a paragone delle democrazie nordeuropee, come la Svezia, o statunitensi siamo in ritardo sull’area dei consumi -prosegue Codeluppi- per ragioni storiche, perché il processo di industrializzazione è arrivato dopo, per non parlare della cultura civica. Nel Belpaese prevale un atteggiamento individualista rispetto alla tutela della collettività. Di conseguenza, ci stiamo incamminando solo ora in questa direzione. Ma sono ottimista: in questi anni, stiamo assistendo a un’indubbia maturazione dei consumatori”. C’è anche la questione di una diversa velocità tra nord e sud del Paese. “Se si pensa che i grandi centri commerciali, la parte più avanzata della distribuzione, sono concentrati al nord, si vede bene che esistono notevoli differenze tra le aree territoriali”.
Consumatori si nasce o si diventa? “Credo che ci sia una componente importante di tipo educativo, diciamo che si impara ad esserlo. Abbiamo sempre più a che fare direttamente col mondo dei prodotti: il passaggio dal piccolo negozio alla grande distribuzione, avvenuto negli ultimi 15, 20 anni, ha portato il consumatore molto più vicino ai prodotti, abolendo intermediari come il negoziante di fiducia. La rete, inoltre, offre oggi possibilità concrete di confronto per fare scelte più informate e più consapevoli”.
Il consumo critico ha a che fare con il rapporto di potere tra le persone e le scelte su come dovrebbero essere utilizzate e spartite le risorse a livello mondiale. Donne, minoranze etniche, associazioni della società civile e movimenti rivoluzionari possono usare il consumo e le scelte ‘private’ di consumo come strumento di cambiamento. Sono una quindicina, in Italia, le principali associazioni dei consumatori. Quanto è battuta da noi la strada dell’organizzazione in gruppi? “Per niente -risponde all’ADNKRONOS Carlo Rienzi, presidente del Codacons- non riusciamo nemmeno a far aprire la domenica i mercati agli agricoltori negli 8mila comuni che potrebbero farlo”.
“Esiste solo la realtà dei Farmer Market della Coldiretti, mercati esclusivi dei coltivatori, su modello statunitense di quelli allestiti periodicamente nelle città, in cui i contadini portano i propri prodotti. Il Codacons -prosegue Rienzi- dà una mano per verificare che siano rispettati gli standard di qualità, come il ‘chilometro 0’ per i prodotti locali”. Ma gli italiani, che tipo di consumatori sono, avveduti o sprovveduti? “Avveduti riguardo a se stessi, ‘sprovveduti’ riguardo a come è stato fatto il prodotto, a meno che non si sia effettuata una specifica campagna di sensibilizzazione”.
“L’italiano ha una grande sensibilità -aggiunge il presidente del Codacons- è un consumatore ‘romantico’. Dunque, ci sarebbe una grossa potenzialità per il consumo etico, ma non ci sono ancora i presupposti materiali”.
“A parte il problema, peraltro fondamentale, dello scarso potere di acquisto, per cui le persone non hanno la testa per andare al supermercato e scegliere il bio -sottolinea Rienzi- qui sono in discussione persino le certificazioni. La gente non ci crede e si chiede perché spendere di più per un prodotto biologico. Va detto che andrebbe rivisto l’intero sistema delle certificazioni per fornire maggiori garanzie di autenticità”.
Diverse le aree geografiche, diversi i consumi? “Al sud i prezzi sono molto più bassi in genere e le possibilità di approvvigionamento più semplici. Si compra di tutto, senza scegliere in base al bello e al buono; alcuni criteri sono ancora molto lontani. Del resto, non ci sono nemmeno più gli sparuti drappelli di verdi e ambientalisti, ormai in via di estinzione”.
“In Italia -ricorda Rienzi- esiste un registro delle associazioni ambientaliste con 78 nomi, dietro a molti dei quali non esiste niente. Abbiamo appena fatto una richiesta al ministero dell’Ambiente perché riconsideri questa lista e ci hanno dato assicurazioni in questa direzione. Il senso di responsabilità? Ce n’è di strada da fare”.
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