A Dolo, vicino a Venezia, c’è Casa a colori. A Milano, zona Barona (e altre parti della città), c’è la più rinomata La Cordata. A Trento, il Barycentro. Il mio elenco non va molto più avanti, poca roba dunque. Ma credo che si potrebbe facilmente arricchire. Potrebbe occuparsene questo giornale, aprendo un nuovo round dopo “la comunità della cura“. A proposito, mi manca un bel titolo, qualcosa di evocativo che aiuti a tracciare la tin red line tra queste (ed altre) esperienze. Per ora accontentatevi di un banale “gli integratori del welfare” che si svela in un doppio senso. Il primo, più scontato ma mai abbastanza esplorato a oltre dieci anni dall’approvazione della legge di riforma dei servizi sociali, riguarda l’integrazione tra diversi servizi di welfare. Nei casi ricordati questi servizi convergono addirittura in uno stesso luogo: Casa a Colori, Villaggio Barona, Barycentro e tutti i loro fratelli e sorelle hanno il pregio di aver preso alla lettera la legge 328, costruendo vere e proprie filiere di inclusione senza limitarsi a teorizzarle nei documenti di programmazione. Ma non si sono fermate qui. Il secondo significato del titolo richiama un’ulteriore competenza di queste strutture: dare l’integratore a un welfare un pò a corto di risorse. Come? Aprendosi al territorio non con dichiarazioni d’intenti, ma attraverso progetti e servizi per un pubblico volutamente differenziato. Ad esempio strutture ricettive dove risiedono famiglie sfrattate, ma dove ci sono spazi per un turismo più o meno standard e soluzioni di affitto calmierato che intercettano la pluricitata “zona grigia” di chi non è troppo povero per accedere ai servizi sociali ma neanche ricco a sufficienza per stare sul mercato. Insomma imprese sociali che sono asset della comunità. Anche in senso infrastrutturale perché spesso la sede fisica dei loro servizi è un bene immmobile restituito a finalità di interesse pubblico. Ma soprattutto perché hanno saputo metterne al lavoro le diverse espressioni: quelle che curano o si fanno carico ed anche le componenti più scettiche, se non contrarie, a questo strano mix. Certo si tratta di attività complesse che necessitano tempi lunghi e business plan articolati dove le modalità di transazione (dal mercato “aperto”, alle donazioni, passando per gli appalti pubblici) devono fare compensazioni tra varie voci di spesa. E allo stesso tempo bisogna saperci fare con la rendicontazione sociale per misurare impatti di svariata natura da comunicare a stakeholder altrettanto diversi. Il brutto titolo, però, alla fine rimane. Qualche suggerimento?
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