Non profit

Gli indicatori di performance

di Bernardino Casadei

È oggi diffuso cercare indicatori sintetici per scegliere l’iniziativa a cui indirizzare le proprie donazioni. Una via è quella di calcolare la quota della donazione che effettivamente raggiunge l’utente finale. È questa, in realtà, un’impostazione molto miope e semplicistica. A parte la considerazione che si tratta di dati che possono essere manipolati abbastanza facilmente, bisogna riconoscere come, entro limiti ragionevoli, il fatto che un ente spenda poco per la propria gestione amministrativa non è affatto un indicatore della qualità del suo lavoro, ma anzi potrebbe nascondere una situazione in cui le risorse vengono gestite in modo approssimativo. Inoltre queste approccio potrebbe privilegiare i grandi enti che possono godere di maggiori economie di scala a scapito di strutture più piccole, ma a volte in grado di dare risposte ben più flessibili ed attente ai bisogni con cui si confrontano.

Un altro set di indicatori si concentra su criteri di efficienza. In pratica si divide il valore dei servizi prodotti per il costo complessivo dell’organizzazione. Anche questi indicatori hanno i loro limiti in quanto, dal lato del nominatore, non è semplice calcolare il valore di quanto erogato, soprattutto quando esso non ha un prezzo di mercato e quindi si rischia di dover confrontare mele con arance, mentre, per quel che riguarda il denominatore, non bisogna dimenticare che l’ente può spesso contare su donazioni e volontariato a cui non è facile dare un valore univoco. Ciò che però è più importante considerare è constatare come quanto prodotto non risponde necessariamente ai reali bisogni della comunità e quindi un ente potrebbe essere estremamente efficiente nella gestione delle risorse a lui affidate, ma tale efficienza potrebbe rivelarsi ben poco efficace se quanto produce non serve o comunque si rivela inadeguato. Cosa che purtroppo nel nostro settore accade abbastanza spesso.

Non è quindi sorprendente scoprire come, malgrado i tanti sforzi, l’elaborazione di indicatori sintetici non stia dando i risultati sperati. Per questo è forse giunto il momento di chiederci se, per superare questa impasse, non sia necessario cambiare radicalmente approccio ed iniziare col domandarsi quale sia la vera finalità delle donazioni, liberandoci da quel pensiero utilitarista e strumentale di matrice anglosassone che è in realtà molto meno fecondo di quello che pretende essere. Il vero valore aggiunto delle donazioni non deve infatti essere cercato nei beni e servizi che vengono prodotti, essi devono essere considerati le conseguenze e i frutti dell’azione filantropica, non il suo fine. Il vero valore di quest’ultima deve piuttosto essere cercato, da un lato, nella sua capacità di generare relazioni, fiducia e quindi quel capitale sociale che è fattore indispensabile per lo sviluppo, anche economico, della società e, dall’altro, nell’essere un’opportunità che i donanti possono cogliere per dare un senso al proprio agire, sviluppare relazioni non strumentali con il proprio prossimo, vivere emozioni autentiche, in ultima analisi, per affermare la propria umanità, elemento anch’esso fondamentale in una società che tende ad essere disumanizzante.

Se queste sono le finalità vere dell’azione filantropica, diventa indispensabile reindirizzare la nostra ricerca e concentrarsi su indicatori che permettano di capire se e come l’attività finanziata permetta effettivamente al donante di affermare la propria umanità e se essa stia realmente creando relazioni e comunità. Con questo non si vuole negare l’importanza di efficienza, efficacia ed economicità, ma ricordare il loro essere dei mezzi. Si tratta di indicatori utilissimi, certo, che è necessario sapere usare, ma che, quando vengono assolutizzati, finiscono necessariamente per negare l’umana dignità. Troppo spesso, invece, ci dimentichiamo di queste semplici verità e rincorriamo un’astratta efficienza che, peraltro, come la presente crisi ci insegna, non di rado genera sprechi e fallimenti.

In ultima analisi si tratta di riscoprire come il miglior modo per cambiare il mondo consiste nel cambiare il proprio cuore. Forse dobbiamo riconosce come la società umana sia troppo complessa e di fatto dominata da un’eterogenesi dei fini che solo uno stolto può illudersi di governare. Riconoscere i nostri limiti e concentrare le nostre energie per ricreare una comunità a misura d’uomo, in cui ciascuno abbia l’effettiva possibilità di contribuire al bene comune, potrebbe, in ultima analisi, rivelarsi non solo la modalità più rispettosa della nostra dignità, ma anche quella più efficace per conseguire quei mutamenti sociali che ci possiamo solo illudere di perseguire con le nostre presuntuose strategie.

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