Questa campagna elettorale ha rimosso il tema dell’immigrazione dal dibattito politico. Non è che una fra le tante rimozioni “ingombranti”, ma in questo caso probabilmente è una fortuna visto il livello di discussione sull’immigrazione che le ultime campagne elettorali, a tutti i livelli, ci avevano riservato. Però è inutile negare che si tratta di un’ennesima occasione persa, e ce ne saranno ancora molte altre, per ristabilire un discorso pubblico decente sui temi legati all’immigrazione e al suo contributo fondamentale per la coesione sociale. Fra le varie argomentazioni a sostegno di questa affermazione, ne esiste una che è particolarmente trascurata. Nelle narrazioni che riguardano il volontariato, il terzo settore e l’impegno sociale, l’immigrato e l’immigrata sono quasi sempre presentati come beneficiari delle attività e mai come protagonisti.
Esistono una miriade di esperienze, e anche alcuni studi e ricerche, che smentiscono questa tesi e legano in maniera stretta la qualità della prima accoglienza alla capacità di sviluppare l’amore per la solidarietà nelle persone che poi sperimentano la piena integrazione lavorativa e sociale.
Oppure, più semplicemente, dimostrano che una volta che un immigrato, ma in genere qualsiasi persona, ha un lavoro dignitoso è più facile che “restituisca” alla società il suo impegno gratuito. Qualcuno prima o poi misurerà anche quanto la società italiana perde in termini di impegno solidale dalla disuguaglianza e dalla crisi del lavoro soprattutto nei giovani? Sarebbe interessante saperlo.
Intanto, è inutile negarlo, esistono ancora molti onesti e volenterosi volontari, soprattutto in alcuni settori e soprattutto al nord Italia, che guardano all’immigrazione con crescente intolleranza e con un sentimento di insofferenza sempre più forte. Per carità, nessuno scandalo. Ma discutiamone. Il volontario, non ci stancheremo mai di dirlo, non è un Santo o un Super Uomo. E’ una persona che vive prima di tutto nella sua realtà e cerca di migliorarla tramite la sua opera gratuita. Ci sono, dicevamo, volontari che guardano all’immigrazione come ad un pericolo insomma, anche a causa di esperienze personali di incontro non certo felici.
Il tema è complicato, ma è interessante osservare, che nelle realtà in cui le organizzazioni sanno coinvolgere gli stessi immigrati, magari anche coloro che hanno in precedenza beneficiato delle attività di volontariato stesse, l’incontro è più fecondo, meno problematico e più felice.
Fra le tante esperienze che si potrebbero raccontare, ve n’è una particolarmente preziosa, perchè mette in gioco e mescola quanto di più prezioso abbiamo da offrire, in termini biologici ovviamente. Secondo i dati resi noti dall’Avis qualche mese fa, nella sola Toscana è cresciuto dell’85% in quattro anni il numero degli immigrati che donano il sangue. Sono il 2,3% dei donatori Avis regionali, con punte del 5,2% in territori ad alta densità di immigrazione come Prato. E stanno cominciando anche a partecipare attivamente alla vita associativa. È solo una goccia, è il caso di dirlo, di una palestra di cittadinanza che come sempre dalla società civile più responsabile interpella i piani alti.
È in queste organizzazioni che si gioca un pezzetto importante di civiltà di un Paese come il nostro che pare non riesca a a stare più unito nemmeno con il Super Attack.
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