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Gli Hotspots? Ecco come funzionano

A Lampedusa il Centro di accoglienza di Contrada Imbriacola è il primo luogo in cui, una volta prese le impronte, viene di fatto effettuata le distinzione tra "rifugiati" e "migranti economici". Attualmente, a siriani, eritrei e iracheni è concesso di potere scegliere il paese europeo dove andare sulla base dei 120mila ricollocamenti decisi dalla Ue. A tutti gli altri, afghani compresi? "La prospettiva sembra essere il diniego o il respingimento"

di Daniele Biella

Hotspots. Punti caldi. Sono queste le nuove frontiere della Fortezza Europa, stabilite dai Paesi dell’Unione per provare a gestire meglio – o forse a iniziare a gestire, dopo anni di difficoltà nel prendere qualsiasi decisione che non fosse di natura securitaria – i flussi migratori in atto da Africa e Medio Oriente verso il vecchio continente, attraverso il mare Mediterraneo.

Il battesimo degli hotspots porta il nome, il volto e le storie di 19 persone, eritree: sono loro che la scorsa settimana, dopo prima fuggite dal regime del proprio Paese, poi salvate in mare e condotte verso il centro di prima accoglienza di Lampedusa dalle navi collegate all’agenzia europea Frontex, hanno già visto accolta la loro richiesta di asilo in Svezia. Sì in Svezia: un aereo li ha portati direttamente nella terra prescelta, una primissima quota dei 120mila ricollocamenti decisi di recente dall’Unione europea, ripartiti in quote fra singoli Stati. Per arrivare fin lassù hanno dovuto rilasciare le impronte, con la garanzia di non finire nelle maglie del regolamento di Dublino (che prevede il luogo d’approdo come nazione dove fare la propria richiesta d’asilo, anche se si vorrebbe andare altrove): “li ho convinti personalmente, dato che la Prefettura mi aveva a sua volta assicurato sulle nuove direttive chiedendomi di comunicarle loro direttamente nel Centro di Lampedusa”, spiega don Mussie Zerai, sacerdote eritreo rifugiato negli anni ’90 in Italia, oggi parroco in Svizzera e soprattutto punto di riferimento da almeno un decennio per connazionali e altri migranti che scappano dalle guerre, tanto da essere stato un candidato al premio Nobel per la pace 2015, assegnato la scorsa settimana alle reti sociali tunisine.

“Le regole sono cambiate, e in questi hotspots i profughi dopo un periodo relativamente breve di permanenza – per i 19 eritrei è stato di due settimane – possono chiedere il posto dove andare, essendo agli inizi della distribuzione e quindi con quote da riempire”, spiega Zerai, “per quel che mi risulta, l’opzione del ricollocamento è prevista per le persone di nazionalità eritrea, siriana e irachena”, sottolinea. E tutti gli altri, afghani, pachistani, nigeriani, sudanesi, etiopi e altri stati dell’Africa subsahariana? La loro sorte non è certa, la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani e delle associazioni verso la loro accoglienza è alta: “se non si è in un paese considerato a rischio, si potrebbe finire nella categoria dei ‘migranti economici’ e non solo ricevere un diniego alla domanda, ma addirittura non potere nemmeno accedere alla possibilità di fare richiesta d’asilo”, denuncia Fulvio Vassallo, docente universitario esperto di migrazioni. “Per questo vogliamo che sia fatta chiarezza su cosa succede dentro gli hotspots, di cui Lampedusa è il primo attivato ma che a breve, da novembre, verrà replicato in altri Centri”, tra cui Pozzallo, sempre in Sicilia.

Nel frattempo, a Catania come in altre città vengono riportate pratiche inaspettate e altrettanto preoccupanti per i diritti delle persone migranti: “vengono allontanati dai centri e messi per strada con un foglio di via dall’Italia entro sette giorni, pena la condizione di clandestinità”, spiega Vassallo. Nel capoluogo etneo ci hanno messo una pezza le associazioni locali, dando un tetto alle almeno 20 persone allontanate, ma la situazione sembra replicarsi altrove proprio in questi giorni. “Loro possono fare comunque la richiesta d’asilo che gli è stata negata prima dell’allontanamento dal Centro di accoglienza, ma facendolo da irregolari finirebbero subito dentro un Cie, Centro di identificazione ed espulsione, con il proprio destino quasi del tutto compromesso, ovvero il respingimento”.

Mentre l’Europa, al di là dei 120mila posti, continua ad avere come priorità il mero controllo delle frontiere – l’ultima proposta è stata quella della Francia di predisporre migliaia di agenti delle varie forze di Polizia alle frontiere, in stretta collaborazione con Frontex – il caso degli hotspots sta venendo pian piano alla luce. Tanto da far salire sugli scudi, proprio per l’incertezza sull’efficacia e il rispetto dei diritti umani in questi Centri, gran parte dell'associazionismo coinvolto. Mentre gli stessi apparati governativi italiani, in primis il prefetto Mario Morcone, capo del dipartimento immigrazione del Ministero dell'Interno, ha dichiarato: "Sarà nell'interesse delle persone negli hospots rilasciare le impronte e quindi richiedere d'asilo, perché rifiutandole s'incorrerà nel trattenimento all'interno dei Cie e nella possibile deportazione“, aveva indicato recentemente, "noi da una parte garantiremo il recupero di più impronte possibili, come ci chiede la Ue, ricorrendo alla forza ma senza dimenticarci le leggi italiane e la nostra tradizione di rispetto dei diritti umani. Non vogliamo creare chissà quali campi di concentramento in Sicilia o altrove solo per fare un piacere alla Francia o alla Germania". Nessun cenno ufficiale, finora, sulle nazionalità degli aventi diritto.

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