Housing

Gli homeless che sono andati a vivere nel villaggio turistico

Alle porte di Roma, 14 case mobili e alcuni chalet di legno in un villaggio turistico sono stati presi in affitto dall’associazione di volontariato “I Poveri al centro”, grazie a un accordo con il gestore. Oggi ospitano 46 persone tra i 20 e i 74 anni, tutte provenienti dalla strada e da centri di accoglienza

di Chiara Ludovisi

Francesco mi aspetta all’ingresso del villaggio, proprio accanto alla reception. Mi fa segno di seguirlo con l’auto e percorriamo un viale immerso nel verde. Il centro di Roma non è distante, il treno che ferma poco lontano da qui impiega poco più di 20 minuti per arrivare a San Pietro. Eppure, sembra che la metropoli sia lontana anni luce: sarà per il bosco che interrompe lo sguardo, sarà per gli chalet e le case mobili che scorrono fuori dal finestrino. Turisti non ce ne sono – d’altronde non è stagione – ma d’estate il villaggio si riempie di turisti e la piscina è frequentata anche da tanti romani, che vengono a rinfrescarsi e a sentirsi un po’ in vacanza.

Dove nasce l’idea dei volontari

Parcheggiamo l’auto fuori da un piccolo chalet di legno ed entriamo. Un tavolino, con un vassoio di pasticcini e una bottiglia d’acqua, due sedie, un lettino medico. «Questo è il nostro punto di appoggio, lo usa anche il nostro medico volontario per le visite domiciliari», spiega Francesco Maria Matricardi, fondatore e presidente di “I Poveri al centro”, una piccola associazione di volontariato. «Volontariato puro», tiene subito a precisare «perché nessuno di noi percepisce alcunché e poi, per scelta, non prendiamo fondi pubblici di alcun tipo e neanche dal 5 per mille. Operiamo grazie alla carità di chi ha, diretta a chi non ha».

Il racconto di Francesco Matricardi

L’associazione è operativa dal 2017 per offrire aiuto ai senza dimora della capitale: «Inizialmente solo accoglienza diurna e servizi in sede, poi abbiamo capito che per andare oltre l’assistenzialismo e favorire il reinserimento sociale, che era il nostro obiettivo, l’alloggio era fondamentale. Ma non avevamo nulla, nessuna struttura nostra: così ci è venuto in mente di utilizzare le strutture turistiche, che specialmente durante il Covid erano vuote. Abbiamo quindi fatto accordi con alcuni piccoli alberghi intorno alla stazione Termini, molto semplici, con stanze da 4 a 6 letti e bagni comuni. Ci facevano un prezzo ottimo e così siamo partiti, accogliendo al loro interno alcuni senza dimora».

Dagli alberghi al villaggio

Da lì al villaggio il passo è stato breve: queste strutture recettive poco si prestano all’accoglienza durante l’inverno, lavorano per lo più in estate: così l’associazione ha iniziato a cercarne una disponibile ad accogliere chi non aveva una casa. «Quando abbiamo trovato questo villaggio, a mezz’ora dal centro e ben collegato, ci siamo resi conto che faceva al caso nostro: non era un cinque stelle, ma aveva tutto ciò che ci serviva, dalle case mobili all’ingresso libero. In estate, si riempie e accoglie fino a 600 persone, ma in inverno è vuoto e le casette sono disabitate. Ce ne sono alcune un po’ più vecchie, che anche nel periodo estivo difficilmente potrebbero essere affittate, ma dignitose ed efficienti, con due stanze, un soggiorno, l’angolo cottura, il bagno e lo spazio esterno. Si trovano tutte nella stessa area, formano una sorta di villaggio nel villaggio. Ci hanno fatto un prezzo sostenibile e così, dall’inverno del 2018-2019 abbiamo iniziato ad accogliere qui, nell’ambito dell’emergenza freddo. Ce ne saremmo dovuti andare in primavera ma è scoppiato il Covid e non potevamo mandare per strada le 11 persone che vivevano qui. Ci sono arrivati 5 mila euro di donazione da uno sconosciuto e li abbiamo subito investiti in questo progetto».

Non solo un tetto sulla testa: il progetto Ca.La.Psi.

In queste case mobili vivono oggi 46 persone di tutte le età: la più giovane ha 20 anni, il più anziano 74. Vengono tutti dalla strada, qualcuno da un centro di prima accoglienza. In ogni casetta, vivono tre persone: due nella stanza doppia, una nella singola.
Oltre a ricevere un alloggio, piccolo ma dignitoso, vengono invitati a partecipare al progetto “Ca.La.Psi.”, che sta per “Casa, lavoro, psiche”, perché è questo che l’associazione cerca di offrire: un reinserimento sociale basato su questi tre elementi chiave imprescindibili. «Ci siamo accorti che se non ricevono un accompagnamento a 360 gradi, al primo soffio di vento cadono di nuovo», spiega Matricardi.

Un cortile tra le case mobili utilizzate dall’associazione

Chiunque può chiedere accoglienza, rivolgendosi all’associazione. «Tanti, quasi tutti, hanno problemi psichici: chi viene dalla strada difficilmente non ne ha. Siamo presenti ogni giorno, con i nostri volontari: tra di loro, abbiamo anche uno psichiatra, che ci aiuta a seguire gli ospiti più “difficili” e ad aiutarli nel modo più adeguato».
L’accoglienza è gratuita per chi non ha un reddito regolare. «A chi invece ha un reddito minimo ma costante, chiediamo un contributo di 100 euro al mese per la doppia, 150 per la singola, da pagarsi non a noi, ma direttamente alla struttura: in totale un po’ meno della metà della quota che dobbiamo pagare al gestore. È soprattutto un modo per dare a loro responsabilità e dignità e a noi la possibilità di aiutare più persone».

Le chiavi di casa

Per quanto semplice, l’alloggio in casa mobile, all’interno del villaggio, ha dei punti di forza importanti rispetto al dormitorio: «Innanzitutto, è aperto 24 ore su 24 e non 15 ore al giorno, come la maggior parte dei dormitori; gli ospiti possono entrare e uscire a qualsiasi ora. Secondo elemento fondamentale è che ciascuno ha la chiave della propria casetta, con cui aprire e chiudere la porta: un gesto che ha un forte significato anche simbolico. E poi devono condividere cucina e servizi solo con altre due persone, hanno un livello di autonomia molto alto: ciascuno è responsabile anche della pulizia del proprio spazio e, insieme, di quello comune».

Prima di trasferirsi nel villaggio, gli ospiti firmano un regolamento, che garantisce quattro mesi di permanenza, prorogabili a 24 se si accetta di essere inseriti nel progetto Ca.La.Psi. In questo momento, l’associazione accoglie nel villaggio 46 persone: 36 di queste sono inserite nel progetto, le altre utilizzano solo l’alloggio. «Sei persone si trovano in tre chalet di legno senza servizi – spiega Francesco – perché le 14 case mobili di cui disponiamo sono al completo, ma abbiamo la possibilità di offrire questa soluzione temporanea, in caso di estrema necessità».

Nel villaggio abitano anche altre persone: «Alcune non hanno rapporti con noi, sono arrivati attraverso altri canali. Altri invece sono arrivati tramite noi e poi sono rimasti, una volta concluso il progetto: pagano l’affitto di uno chalet e vivono qui tutto l’anno».

I problemi certo non mancano, la convivenza non è facile, soprattutto quando tante fragilità vivono l’una accanto all’altra. Ma la presenza dell’associazione e l’adesione al regolamento aiutano a mantenere un clima generalmente tranquillo. «E poi c’è Giuseppe», spiega Francesco «che ci ha fatto trovare questo chalet riscaldato e la merenda di benvenuto. È un abitante ed anche un volontario, che sta recuperando il proprio progetto di vita ed è diventato per noi un punto di riferimento. Il suo ruolo è fondamentale, anche nel garantire un clima di rispetto e civile convivenza».

Giuseppe, da manager a senza dimora

Giuseppe compirà 70 anni a giugno. È un architetto, ha avuto una carriera brillante, lavorando per tanti anni in Francia e nell’ovest dell’Africa.
Si occupava di finanziamenti privati per opere di interesse collettivo: in inglese, “project financing”.

Poi, è arrivato il burnout: «Per chi non lo conoscesse, è una forma di depressione con sintomi infidi», spiega. «Te ne accorgi dopo molto tempo. Con la depressione resti chiuso in casa, con il burnout invece vieni spesso preso da un’attività frenetica negativa, che ti porta a distruggere tutto quello che hai fatto: non sopporti più te stesso, né la vita che hai e che fai. Difficile dire da dove mi sia arrivato: gli psicologi dicono da fratture dovute allo stress, perché sono sempre stato troppo attivo”.

Giuseppe sulla soglia della sua casa mobile

Così, in pochi mesi, Giuseppe ha perso tutto: il lavoro, i soldi, la casa. Per quasi un anno, ha vissuto girando per la città, facendo qualche lavoretto e dormendo dove capitava.
Poi, un giorno, ha trovato per caso l’associazione: «Non ero sicuro di voler essere aiutato, non lo accettavo. Ma loro hanno avuto lo stile, l’eleganza di aiutarmi in un certo modo, che alla fine mi sono convinto. Mi hanno dato un tetto dignitoso, ma anche molto di più. Vivo qui da 14 mesi e tre giorni e oggi posso dire che sto ripartendo: per la prima volta in più di un anno, ho pagato la mia quota, perché finalmente ho avuto la pensione, grazie all’assistenza che mi hanno offerto anche nelle faccende burocratiche. E sto mettendo in piedi la mia startup, nel settore dei cimiteri privati: un’attività non allegra, ma un’esigenza reale e un business valido e interessante».

L’interno di una caaa mobile

Giuseppe porta in tavola il caffè mentre parliamo. La sua casa mobile, che condivide con un altro ospite, è pulita e ordinata. «Se uno la tratta bene, è un alloggio non solo dignitoso, ma confortevole», assicura.
«Mi sento bene da diverso tempo ormai grazie anche al fatto che sono tornato a sentirmi utile. Merito dell’associazione, che ha compreso quanto avessi bisogno di avere qualcosa da fare, io che nella vita sono sempre stato fin troppo attivo. Hanno iniziato a darmi degli incarichi, dei compiti, che mi sono serviti come terapia: avevo bisogno di ricominciare a fare qualcosa. E così sono diventato volontario dell’associazione. Aiuto gli ospiti ad inserirsi, o a risolvere qualche problema, do consigli e indicazioni, faccio da tramite con l’associazione. Qui si sta bene, il clima è buono, ogni tanto c’è qualche screzio, ma si tratta per lo più di atteggiamenti minacciosi, o aggressioni solo verbali. Questo impegno mi sta dando l’opportunità non solo di ritrovare un mio ruolo, ma anche di conoscere un me stesso che non conoscevo: un me stesso che si dà da fare per gli altri. Spero e penso che questa esperienza continuerà anche quando, forse prima dell’estate, riuscirò ad avere un altro posto in cui vivere».

Sara e Simone

Intanto ci hanno raggiunti Sara e Simone: lei ha 20 anni, i capelli tinti di rosa e il viso ben truccato. Simone ha 39 anni ma non li dimostra: non sembra che tra loro ci siano quei 19 anni di differenza che hanno creato scandalo in famiglia.
«Ci conosciamo da quando siamo bambini, ma abbiamo aspettato che lei avesse quasi 18 anni per metterci insieme», inizia a raccontare Simone, «ma evidentemente non è bastato, visto che il nostro fidanzamento non è stato preso per niente bene. Abbiamo preso un piccolo appartamento in affitto e siamo andati a convivere, ma dopo un anno non ce l’abbiamo più fatta: i soldi non bastavano e abbiamo avuto problemi col proprietario. Ci siamo appoggiati per un po’ di tempo dalla madre di Sara, ma poi sono subentrati vari problemi e lei ci ha messi alla porta. Non avevamo un posto dove andare, ci siamo ritrovati a vivere alla stazione Tiburtina». 

Sara e Simone

Sara però ha la sclerosi multipla: «Per me la vita in strada è impossibile, avevo un sacco di problemi» racconta. «Dover stare tutto il giorno in giro, dormire al freddo… Mi ammalavo continuamente. Simone lavorava nella sicurezza in alcuni supermercati: quando andava al lavoro non sapevo dove andare, a volte restavo in stazione, altre volte andavo con lui e lo aspettavo nei dintorni. Ma era una vita impossibile: siamo stati due mesi ospiti da una mia amica a Palombara, ma la casa era piccola, lei aveva due figli: così, ci siamo trovati di nuovo alla stazione. E per fortuna abbiamo trovato loro», sorride Sara, indicando Francesco Matricardi, presidente dell’associazione “I poveri al centro”, seduto di fronte a lei. 

«Avevo messo un post su diversi gruppi Facebook per chiedere aiuto», spiega Simone, «domandavo se qualcuno avesse una stanza, o un posto qualsiasi per ospitarci. Mi ha risposto una signora, che era stata aiutata dall’associazione: mi ha consigliato di rivolgermi a loro. E in pochissimi giorni ci hanno accolto». I primi giorni, Sara e Simone si sono appoggiati in uno chalet senza servizi, perché le case mobili erano tutte occupate, come quasi sempre. «Ma la sera potevamo chiudere la porta e stare al caldo: era già una gran cosa!», assicura Simone. Da un paio di mesi, vivono in una casa mobile: loro due nella stanza doppia, una signora nella singola. 

Come si trovano? «Benissimo! Lo adoro tantissimo!», esclama Sara, lasciandosi prendere dall’entusiasmo. «Ci sono tante persone belle con cui si può creare qualcosa di bello». Sara è la più giovane: «Mi sento la figlia di tutti, ma soprattutto della nostra coinquilina, mi sento un po’ la pupetta». 

Molto simile a una casa

Progetti per il futuro? «Cercare immediatamente un lavoro, adesso che sono più tranquillo se devo lasciarla qui tutto il giorno, o anche la sera».
Sara si affatica facilmente, «non è facile per me lavorare. È un’impresa anche fare la salita per raggiungere l’uscita del villaggio, arrivo su col fiatone», racconta. Per ora, non riceve una pensione e non si sa perché: «Stiamo facendo ricorso con l’avvocato» spiega. «Fino a 18 anni ho avuto l’indennità di frequenza, poi quando sono scattati i 18 anni, puff! È come se per miracolo fossi guarita. Ma dalla mia malattia non si guarisce. Qui però stiamo ricevendo tanto supporto, sia dai volontari che da quelli come no. La speranza è una casa tutta nostra. Ma intanto io qui ho trovato qualcosa di molto simile a una casa e soprattutto una piccola famigliola».

In apertura un homeless alla stazione Termini di Roma Foto Cecilia Fabiano/LaPresse Tutte le immagini del camping lungo l’articolo sono dell’autore

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