Il carcere è ormai divenuto una pentola che bolle nell’indifferenza di chi avrebbe il potere e il dovere di spegnere il fuoco e nel cinismo di chi vi soffia sopra per attizzarlo ulteriormente.
Se la pentola trabocca pericolosamente di sofferenza e di insofferenza è – anche e da ultimo – perché ai reclusi è stata sottratta quella speranza che era stata pazientemente costruita negli ultimi anni. Tra il 2015 e il 2016 gli Stati generali dell’esecuzione penale infatti avevano messo al lavoro e a confronto centinaia di esperti e operatori in 18 tavoli tematici; un impegno accurato e anche appassionato ereditato l’anno seguente da tre Commissioni di studio, composte da decine di giuristi, magistrati, cattedratici, avvocati, istituite dal ministro allo scopo di riassumere e tradurre quel lavoro e di elaborare gli schemi di decreto legislativo per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Cosa che avvenne, così che nell’autunno 2017 i decreti erano pronti per l’approvazione da parte dell'esecutivo. Il quale, avvicinandosi ormai la data delle elezioni, però se ne guardò bene. Naturalmente, perse comunque, non solo i voti ma anche la faccia, avendo scelto di terminare la legislatura tradendo l’impegno di varare una seria e necessaria, e peraltro prudente, riforma.
Quei decreti sono stati infine ripresi dal nuovo governo gialloverde, accuratamente svuotati e infine emanati. Pubblicati in Gazzetta ufficiale il 26 ottobre, entreranno in vigore il 10 novembre.
In particolare, sono state rimosse e archiviate le proposte tese a rivitalizzarle le misure alternative alla detenzione, che dovevano conseguire il duplice obiettivo di ridurre il sovraffollamento penitenziario e di consentire di scontare almeno parte della pena in modalità effettivamente risocializzanti e propedeutiche al ritorno nella società.
Alternative alla pena e pene alternative
«Occorre provare a immaginare alternative alla pena, non solo pene alternative», diceva il compianto Cardinal Martini. Aggiungendo che «Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza».
Altri tempi e altre stature. Oggi nessuno osa pensare e discutere di modelli di difesa sociale diversi dalla somministrazione di una sofferenza legale, mentre le stesse misure alternative vengono spesso intese, e spacciate dagli “imprenditori della paura” e dai loro megafoni mediatici, come rinunzia alla punizione. L’anno passato gridavano che la riforma del governo di centrosinistra avrebbe “svuotato le carceri”: mentivano sapendo di mentire ma ottenendo il risultato di fare vacillare, e infine recedere, la già scarsa determinazione di quel governo.
Le ricerche scientifiche al riguardo, all’opposto, dimostrano che quelle misure sono uno strumento di prevenzione della recidiva, e dunque del crimine, oltre che una modalità di esecuzione delle pene coerente con il dettato costituzionale e con una concezione umana e finalizzata del tempo di detenzione. Lo ha sottolineato di recente anche l’ex magistrato Gherardo Colombo.
Speranza è una parola preziosa per tutti, ma in carcere essa si fa precaria e fragile. Riempie i sogni e le giornate ma basta poco (in un luogo in cui il poco è tutto) per mandarla in mille pezzi. Così è avvenuto e sta avvenendo in questi mesi.
Morire di carcere
Un indicatore inequivocabile del malessere è la scelta sempre più frequente di uccidersi in cella. Nei primi dieci mesi del 2018 è successo 53 volte, superando il numero dell’intero 2017, quando erano stati 52 (ma il dato ufficiale del ministero dice 48).
La cifra è però già da aggiornare: domenica scorsa un giovane recluso si è tolto la vita nel carcere di Velletri; nello stesso luogo, solo poche ore prima, un altro detenuto era invece morto per un malore. Non se ne conoscono i nomi, perché questi decessi non fanno notizia, se non, il più delle volte, per rimarcare non già le condizioni di detenzione bensì la carenza di organici dichiarata dai sindacati di polizia. Sappiamo però che, a detta dei custodi, il suicida aveva «un comportamento arrogante e poco collaborativo». Così come veniamo puntualmente informati di tanti invece risibili avvenimenti, artatamente enfatizzati per occultare il malessere, invece reale e diffuso. Sappiamo, ad esempio, che nel tal carcere il tal giorno, il tal detenuto, ammesso al lavoro esterno come addetto alla sala bar di una cooperativa, «a fine serata avrebbe dato segno di ebbrezza alcoolica e come tale sarebbe stato segnalato alla sorveglianza dell’Istituto penitenziario». Oppure che, in altro carcere, nel corso di una perquisizione nelle celle il personale rinveniva «addirittura della frutta lasciata a macerare», che si suppone accumulata per ricavarne una qualche bevanda fermentata. E così via.
Intanto, di carcere si continua a morire. Non da oggi, ma oggi in misura maggiore e senza che ciò provochi, se non risposte, perlomeno domande.
Come dimenticare che il picco massimo di suicidi in cella nell’ultimo quarto di secolo, ben 69, si è verificato nel 2001, all’indomani del mancato provvedimento di clemenza nell’anno del Giubileo? Anche lì, in dirittura d’arrivo, avevano trionfato la pavidità e i veti reciproci dei partiti. In particolare, della Lega di Umberto Bossi e di Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini, entrambi all’apice del potere allora non riuscirono a immaginare che una giustizia che avesse il coraggio di essere mite potesse, in definitiva e in futuro, risultare un investimento.
Un deposito di vite a perdere
Al 31 ottobre scorso in carcere vi erano 59.803 persone, stipate nei 50.616 posti dichiarati “regolamentari”, che però non sono tali ed effettivi poiché almeno 5.000 risultano invece inagibili, per vari motivi. Vi sono, insomma, quasi 15.000 reclusi in più di quanti le carceri potrebbero contenerne. Inevitabile che ciò aggiunga sofferenza a sofferenza, tensione a tensione. E produca l’aumento dei cosiddetti “eventi critici”, come pudicamente e cripticamente vengono chiamate tutte le situazioni di disagio: aggressività, scioperi della fame, violenze, autolesionismo. Nel primo semestre del 2018, oltre ai suicidi, si sono già registrati 5.157 atti di autolesionismo (erano 4.310 nel 2017) e 585 tentati suicidi (erano 567).
Per non dire dei problemi igienici e sanitari: da ultimo, nel carcere di Trieste c’è l’allarme per le pulci. E dei prevedibili effetti dell’ennesimo decreto sicurezza, con il quale vengono ulteriormente criminalizzati migranti e poveri autoctoni.
Insomma, il carcere della speranza sta lasciando posto al suo contrario e tornando a essere un lazzaretto, un deposito di vite a perdere. Quello che evidentemente si vuole che sia. Spesso neppure per reale cattiveria (oggi che essere “buonisti” è diventata un’accusa e un insulto) e per calcolo politico (ed economico, ché il carcere è anche un grande business, che naturalmente tende a incrementare se stesso), ma per indifferenza e distrazione.
Quali che siano le motivazioni e le cause, non muta il risultato di una pena reclusiva che, a distanza di secoli da Cesare Beccaria, è ancora una pena corporale, che determina dolore fisico e psichico, che produce malattia e morte, che si regge su violenza e opacità.
«Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori». Sono parole che, oltre un secolo fa, il 18 marzo 1904, il socialista Filippo Turati pronunciò in un discorso alla Camera dei deputati. Sembrerebbero di oggi, non fosse che da molto tempo nelle Aule parlamentari non si levano più voci a denunciare l’intollerabilità della situazione carceraria.
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