Famiglia

Gli astensionisti (primo partito italiano)

Secondo le previsioni supereranno la soglia degli 11 milioni. E' il numero record di coloro che il 13 maggio non si recheranno a votare.

di Riccardo Bonacina

Un terzo degli elettori il 13 maggio non ci sarà. A dividersi fra il piazzista e il piacione, un italiano su tre non ci sta. Conti alla mano, il partito invisibile del rifiuto sarà la prima formazione politica del nostro Paese. «Realisticamente, saranno oltre 11 milioni gli italiani che non andranno a votare. Tre milioni in più rispetto al 1996. A loro bisognerà aggiungere la cifra attesa di tre milioni di schede bianche», è questa la previsione di Renato Mannheimer e Giacomo Sani (La conquista degli astenuti, Il Mulino). Insomma il partito del voto in bianco il prossimo 13 maggio rischia di fare qualcosa come 14 milioni di proseliti. Un bel problema, altro che democrazia evoluta! Proprio nel momento della convocazione elettorale, la democrazia italiana appare asfittica, malata. Incapace di interessare il popolo, profondamente deficitaria di partecipazione. Le ragioni sono molteplici. Proviamo a elencarne alcune. Il vuoto politico. La gara che lo specchio deformante di giornali e tivù ci propone è, oggettivamente, più che deprimente. Il buffo dilemma dei due poli è una competizione dove ad una destra bottegaia e cialtrona, che sogna e propone un Paese di plastica, si contrappone una sinistra settaria e presuntuosa, capace solo di vietare e demonizzare. Un dilemma che non appassiona anche perché, in realtà, è l’assenza della politica a disegnare il profilo di Ulivo e Casa delle libertà. Un profilo ancora dominato, in entrambi i poli, dalla negazione del proprio passato, o quantomeno dalla sua evoluzione negli ex fascisti e negli ex comunisti, e via via sino agli ex democristiani, ex socialisti, ex repubblicani e chi più ne ha più ne metta, in una generale corsa all’adeguamento nei confronti del mercato e del modello americano. L’identità di ciascun polo è costruita su sottrazioni, è il risultato di un fallimento ideologico e in seguito anche politico, si tratta di un’identità ultimamente definita da una specie di “complesso” verso tutto ciò che è (o peggio che appare) americano. Una politica che rinuncia a se stessa e alla sua storia, già nella sua autocoscienza non può che perdere per strada prima la stima, e poi il consenso. Del resto basta scorrere qualsiasi ricerca di qualsiasi istituto di sondaggi per constatare quanto la fiducia verso i partiti, tutti i partiti, sia a livelli record di negatività. Ha ragione Marco Livia, direttore Iref, a sottolineare: «La gente si astiene perché manca il tema centrale della necessità politica. Per schierarsi il cittadino deve sentire i propri interessi difesi, interessi che possono essere del singolo, della famiglia, di un gruppo… C’è astensione perché c’è difficoltà a rispecchiarsi negli schieramenti, perché si somigliano e il cittadino non si sente rappresentato da nessuna delle parti in gioco. Non individua nessuno che faccia davvero politica, tutti fanno tv». Il ricambio mancato.La stagione del bipolarismo all’italiana è nata sulla spinta dell’indignazione popolare suscitata dai bollettini degli arresti e sulla retorica del referendum e del nuovo che avanza. La classe politica della prima Repubblica, fu detto, andava sostituita con nuovi leader provenienti dalla società civile. Molte vecchie facce hanno, in effetti, lasciato, ma un vero ricambio non c’è stato. Alla vigilia di nuove elezioni, le prime del terzo millennio, la sensazione è di una povertà di personale politico sia a livello locale (nonostante e anzi a causa forse dei collegi uninominali), sia a livello centrale. Le poche eccezioni sono legate a incarichi istituzionali di grande esposizione mediatica o allo svolgimento di funzioni amministrative in Comuni o Regioni (Formigoni, Bianco, Rutelli), o addirittura a poteri extra-politici ed extra-parlamentari (Berlusconi, Di Pietro, Bonino, D’Antoni, Cecchi Gori). Riguardo al personale politico poi, la situazione è deprimente: dopo Berlusconi, Forza Italia non ha un numero due (forse neppure un numero 3 o 4). Il centro-sinistra presenta l’ottimo Piero Fassino come vice-premier, il più diligente quadro di partito dei Ds e, nonostante la maggiore ricchezza del suo retroterra (verdi, socialisti, popolari) non offre uomini che catalizzino idee, suggestioni, “sogni” politici capaci di catturare l’attenzione degli elettori. Le elezioni che dovevano essere del “ricambio” della classe dirigente, si sono trasformate in quelle della delusione. Il candidato paracadutato.La fine delle preferenze e del proporzionale, retaggio della Costituente post-fascista che ha imposto per 40 anni una politica di grande partecipazione “orizzontale” contro il ritorno di qualsiasi dittatura, ha segnato un grande allontanamento dalle urne. I candidati del 13 maggio sono stati decisi a Roma nei vertici di Polo e Ulivo, paracadutati nei collegi per disegni ed equilibri che sfuggono al popolo. Fausto Bertinotti ha parlato di «democrazia in mano agli oligarchi», e la seconda carica del Paese, il senatore Mancino, che certo non è una vergine della politica, ha chiosato così: «Abbiamo toccato il punto più basso della politica». Alcune vicende sono state clamorose: l’assenza di candidati Ds in quasi tutta l’Irpinia per far posto all’Udeur (persino alla moglie di Mastella); la decisione di Massimo D’Alema in corsa a Gallipoli ma solo nell’uninominale in contrasto con i dirigenti dello stesso Ulivo. Clamorosa anche la vicenda di Trento, dove è stato imposto come candidato della Margherita il ministro Sergio Mattarella, nonostante gli attivisti locali avessero presentato e sostenuto un loro candidato. L’uso massiccio delle liste civetta da parte dei due poli (Rifondazione ha presentato 600 esposti) ha poi qualcosa di sudamericano: centro-destra e centro-sinistra presentano ovunque loro liste di minoranza per rastrellare il voto dello scorporo ingannando così gli elettori e facendo spallucce persino ai richiami del presidente Carlo Azeglio Ciampi. La società fantasma.Uno dei principi della Costituente del 1946, al quale molti oggi nei due schieramenti, si richiamano, è quello della sussidiarietà. La ricchezza della società si esprime attraverso la presenza e la soggettività di corpi intermedi, libere associazioni di cittadini non vincolate in alcun modo dallo Stato, corpi sociali il cui primo nucleo è la famiglia. Al di là di quanto viene quotidianamente affermato, questo ceto politico e questo ibrido sistema elettorale prescindono però completamente da tale principio. La società civile è vista come un soggetto passivo, un grande mercato dove piazzare il proprio prodotto, una massa emotivamente in balia dei mass media. Finiti i partiti tradizionali e l’associazionismo più o meno a loro collaterale, tramontato nei fatti il ruolo del sindacato nel mondo del lavoro, gli interessi sociali non trovano più modalità di mediazione nei soggetti tradizionali. La politica ha oggi meno legami con la società civile di qualche decennio fa, e questo appare sempre meno come un vantaggio e come segno di evoluzione del sistema democratico. Anzi, una politica senza legami con la società civile rischia di essere in balia dei poteri forti, delle oligarchie che contano. La società civile è oggi evocata come un valore, non come una rete di interessi e di soggetti. I politici e la politica se vorranno ritrovare il senso della loro funzione e del loro ruolo dovranno prima o poi ritornare a fare i conti con una società che, a torto o a ragione, oggi si sente infinitamente superiore alla politica. Certo, fa un certo effetto, in un Paese dove per almeno trent’ anni la disputa fondamentale fra Dc e Pci ha riguardato la giustizia sociale, constatare come la gara fra i contendenti e il massimo del contenzioso sia oggi sul minutaggio delle presenza in tv. Morale. Le uniche forze politiche ad aver colto il tema centrale del deficit della rappresentanza e della partecipazione democratica in Italia sono state le forze proporzionaliste (da Rifondazione a Democrazia europea). Un dato che probabilmente dà un colpo di piccone definitivo al troppo propagandato dogma del bipolarismo, sistema utile più a Berlusconi e a D’Alema che al Paese. Comunque vadano le elezioni proprio dalla riforma elettorale bisognerà ripartire perché si possa rimettere al centro del dibattito ciò che conta in democrazia: la partecipazione.


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