Mondo
Gli aiuti “fake” dell’Unione Europea
“This is not enough”. Titolo inequivocabile dell’ultimo rapporto Aidwatch che passa in rassegna gli aiuti pubblici allo sviluppo (APS) dell’UE e dei suoi Stati Membri nel 2015. L’incapacità a raggiungere il target dello 0,7% non fa purtroppo quasi più notizia, così come la tendenza a gonfiare gli APS con spese improprie, tra cui l’accoglienza dei rifugiati. Per Luca De Fraia, vice Segretario generale di ActionAid Italia, “gli aiuti europei sono ad un punto di svolta di grande importanza, che va seguita con estrema attenzione”.
Tante promesse smentite dai fatti. Quante volte abbiamo sentito questa sentenza riguardo la qualità e la quantità degli sforzi che gli Stati Membri dell’Unione Europea forniscono negli aiuti pubblici allo sviluppo? L’ultimo rapporto AidWatch pubblicato da una rete di ONG europee sugli APS dell’UE nel 2015 non fa eccezione. Con un titolo inequivocabile – “This is not enough” – Concord Europe denuncia le insufficienzi degli Stati Membri, sempre pronti a promettere la luna quando sono chiamati a lottare contro la povertà e le disuguaglianze sociali nel mondo, con annunci che poi vengono crocifissi dalla statistica.
Aiuti poco "genuini"
Un dato su tutti: nel 2015, su 28 Stati Membri dell’UE soltanto cinque hanno rispettato l’obiettivo di raggiungere lo 0,7% del reddito nazionale lordo da riservare agli aiuti pubblici allo sviluppo entro il 2020: Danimarca, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito, quest’ultimo in via d’uscita dell’UE. Secondo Aidwatch, in valore assoluto lo scarto tra gli impegni presi e ciò che è stato davvero erogato nel 2015 è pari a 36,9 miliardi di dollari. Tra le tendenze negative, la rete di Concord europe attira l’attenzione sul fatto che “il 17% degli aiuti contabilizzati [circa 10,5 miliardi di euro, ndr] non sono realmente destinati ai paesi in via di sviluppo perché rientrano in altre voci di bilancio quali l’assistenza ai richiedenti di asilo e ai rifugiati, il supporto degli studenti, la riduzione del debito e i rimborsi di interessi. Alcuni Stati Membri hanno incrementato i loro aiuti contabilizzando quasi esclusivamente le spese per accogliere i richiedenti asilo sui loro territori”.
Il 17% degli aiuti UE contabilizzati [circa 10,5 miliardi di euro, ndr] non sono realmente destinati ai paesi in via di sviluppo perché rientrano in altre voci di bilancio quali l’assistenza ai richiedenti di asilo e ai rifugiati, il supporto degli studenti, la riduzione del debito e i rimborsi di interessi
Il governo che fa maggior ricorso agli “aiuti bilaterali inflazionati” è l’Austria (74%), seguita dall’Italia (65%), la Grecia (58%) e il Portogallo (56%). Ma gli aiuti “legati” non sono una novità, anni fa gli Stati Membri costringevano un paese beneficiario a rivolgersi a fornitori del paese donatore per implementare i progetti di sviluppo. Insomma, la sostanza è la stessa, a cambiare sono le dinamiche. Per Aidwatch il caso della Svezia illustra perfettamente la tendenza degli Stati Membri a gonfiare gli APS. “Per il 2015, nelle statistiche dell’OCSE-DAC la Svezia ammontava i suoi aiuti allo 0,95% del Pil”, si legge nel report di Concord. "Ma dopo un’attenta analisi dei dati ‘genuini’, gli aiuti svedesi calano in realtà allo 0,75% del Pil”. L’unico paese europeo in cui gli aiuti gonfiati sono quasi nulli è il Lussemburgo che, è bene sottolineare, non accoglie molti richiedenti di asilo e rifugiati.
Nel caso dell’Italia, gli aiuti “genuini” (cioè quelli davvero spesi a favore dei paesi in via di sviluppo) ammonterebbero nel 2015 allo 0,15%, mentre quelli ufficiali sono pari a 0,21%. Nelle sue raccomandazioni, Aidwatch chiede al governo italiano “di rendere totalmente operativa la nuova legge di riforma garantendo risorse appropriate all’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS) e la trasparenza della Banca Depositi e Prestiti”.
Per il direttore di Concord Europe, Seamus Jeffreson, “i leader europei devono rispettare l’impegno di raggiungere lo 0,7% ed assicurarsi che siano di alta qualità ed efficaci. Questo significa smetterla di gonfiare gli APS e includere voci di spesa come il supporto agli studenti, la riduzione del debito e i rimborsi di interessi, che nulla hanno a che fare con il supporto di cui hanno bisogno i Paesi in via di sviluppo. Il problema diventa acuto con i costi dei rifugiati, rispetto ai quali gli Stati Membri dell’UE hanno il dovere di fare la loro parte, ma senza distogliere i budget riservati agli aiuti allo sviluppo. E’ più che mai necessario supportare la società civile dei paesi in via di sviluppo per aiutarla a monitare il modo con cui gli APS sono spesi nel rispetto dei criteri di trasparenza e di responsabilità, una sfida fondamentale nell’Agenda 2030, e garantire che gli aiuti abbiano davvero un forte impatto”.
Nel caso dell’Italia, gli aiuti “genuini” (cioè quelli davvero spesi a favore dei paesi in via di sviluppo) ammonterebbero nel 2015 allo 0,15%, mentre quelli ufficiali sono pari a 0,21%.
Ma la strada appare tutta in salita. Sempre Aidwatch sottolinea infatti che “i donatori europei minacciano la trasparenza e la responsabilità riguardo l’uso degli aiuti UE allo sviluppo accrescendo il livello di complessità degli APS, inflazionando i dati e ostacolando sempre più l’accesso della società civile ai processi decisionali”.
Verso una logica contrattuale degli aiuti UE allo sviluppo
Per Luca De Fraia, vice Segretario generale di ActionAid Italia, “il rapporto riflette le tendenze preoccupanti che caratterizzano la realtà degli aiuti UE allo sviluppo. Oggi si sta andando oltre gli aiuti, che rimangono certo importanti, ma che l’UE e i suoi Stati Membri tendono a circoscrivere in una cornice più grande che a Bruxelles chiamano ‘development policies’, in cui prevale una logica contrattuale di ‘mutual benefit’ tra i paesi donatori dell’UE e i loro partner del Sud del mondo”.
In altre parole, “l’approccio tradizionale che vede le diverse componenti del mondo della cooperazione internazionale negoziare tra loro per trovare un accordo comune nell’ambito di un quadro molto ben definito come gli Obiettivi di sviluppo sostenibile, rischia di lasciare il posto ad una logica di confronto ben diversa in cui prevale la volontà di entrambi le parti – l’Unione Europea da un lato e i loro Paesi partner dall’altro – di fissare e raggiungere obiettivi di breve termine in base ai loro rispettivi interessi”. E ad oggi l’interesse che prevale a Bruxelles e nelle capitali europee è quello di frenare i flussi migratori provenienti dall’Africa e dai Paesi del Vicinato. Il che secondo De Fraia “comporta un rischio molto alto sull’uso che si fa degli aiuti pubblici allo sviluppo, ad esempio includendo negli APS dei progetti incentrati sulla sicurezza delle frontiere e dei territori coinvolti dai flussi migratori, oppure integrando nei calcoli degli APS l’accoglienza dei richiedenti di asilo e dei rifugiati”.
Ombre sul nuovo Consenso europeo per lo sviluppo
Ma che tipo di risposta la società civile è in grado di dare per contrastare le eventuali derive del nuovo approccio? “Non siamo contrari all’idea di superare la logica degli APS, ma allora a quali regole ci si riferice per implementare le policies che l’UE intende favorire? Quale sarà la portata di queste policies? In questo caso, bisogna porre delle condizionalità”. Ma di quali policies stiamo parlando? “Un esempio riguarda i cosiddetti ‘results framework’ – uno strumento operativo introdotto nel 2015 dal Commissario europeo allpo svilupo, Neven Mimica, che consente di produrre un’analisi sintetica dei risultati raggiunti dagli aiuti della Commissione UE nell’ambito di una cornice strategica in cui l’UE e i paesi beneficiari sono teoricamente allineati, ma in realtà Bruxelles e gli Stati Membri sembrano adottare questi ‘results framework’ in modo quasi unilaterale”.
Insomma l’UE non può svincolarsi dalla necessità di dialogare con i suoi stakeholders, a partire dai Paesi partner e dalla società civile. La posta in gioco è tanto più importante che a Bruxelles si sta lavorando al nuovo ‘Consenso europeo per lo sviluppo’ che, come ricorda il portavoce di Concord Italia, Francesco Petrelli, “è il pilastro su cui si baseranno la strategia e la realizzazione delle politiche europee [di sviluppo] nei prossimi anni. La prossima tappa del processo di consultazione sarà la proposta di un documento da parte della Commissione Europea il 22 novembre. Il processo poi proseguirà attraverso un ‘dialogo strutturato’ che dovrà coinvolgere gli Stati Membri e tutti gli attori secondo il metodo multistakeholder, per poi essere approvato nella primavera del 2017”.
Di solito la nozione di consenso rimanda ad una conformità di voleri. Chissà il modo con cui a Bruxelles e nelle capitali europei questa nozione viene interpetrata.
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