Il caso
Giusto indignarsi per Ilaria Salis, ma dobbiamo farlo anche per le condizioni delle nostre carceri
Le foto e i video della 39enne italiana hanno fatto il giro del mondo. Sta destando scalpore il fatto che sia entrata in un'aula di tribunale ungherese con mani e piedi incatenati. Patrizio Gonnella (presidente di Antigone): «In Italia rischiamo di emulare l’est dell’Europa. Il sovraffollamento medio è al 117,2% e i suicidi in carcere nel 2024 sono già 13.Per fortuna ci sono i volontari e le associazioni»
Ilaria Salis ha fatto il suo ingresso nell’aula di tribunale alla Capital Court di Budapest con manette e catene ai piedi, tenuta per una catena e sorvegliata su una panca da due agenti di un corpo speciale di polizia penitenziaria. Sono stati chiesti 11 anni di carcere per l’insegnante di Monza detenuta nella capitale ungherese da quasi un anno, con l’accusa di lesioni aggravate ai danni di due neonazisti. In Ungheria il sovraffollamento in carcere è in media del 102 per cento, «in Italia siamo al 117,2% in media. A fronte di 51.272 posti ufficialmente disponibili, le persone sono oltre 60mila», dice Patrizio Gonnella, presidente nazionale dell’associazione Antigone.
Gonnella, c’è tanta indignazione per le immagini di Ilaria Salis in manette e incatenata “come un cane”…
Quelle immagini indignano per il modo in cui sono state ostentate. C’erano le telecamere, gli italiani, i familiari, il mondo che guardava quell’udienza. Volutamente, quell’udienza è avvenuta con modalità che ci riportano a un’altra epoca storica, con l’uso di manette, schiavettoni, persone incappucciate. Per fortuna da noi gli schiavettoni e gli incappucciati non ci sono, si viene portati in aula di tribunale con le manette.
Si sta parlando molto delle condizioni detentive in Ungheria. Ma da noi com’è la situazione?
Non conosco personalmente le condizioni detentive in Ungheria, ma attraverso i rapporti degli organismi internazionali. Conosco quelli di altri Paesi dell’Est. Sono condizioni complesse, sia dal punto di vista igienico-sanitario (pessimo anche a causa del sovraffollamento), sia per quanto riguarda i maltrattamenti. Se leggiamo i rapporti del Comitato europeo per la prevenzione della tortura in Italia e del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, anche da noi troviamo sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie particolarmente difficili in alcuni istituti. Abbiamo avuto, in alcune carceri, episodi di violenza.
Cosa ci differenzia dalle carceri ungheresi?
È difficile fare i paragoni. Ho girato le carceri albanesi e rumene. Il sistema penitenziario italiano garantisce una qualità della vita più decente. E soprattutto si è creata una cultura comune. Le associazioni, i volontari, i sacerdoti, le cooperative, parte dell’amministrazione penitenziaria, le istituzioni, la scuola hanno un linguaggio condiviso. Questa cultura, che è un patrimonio della cultura penitenziaria italiana, si vorrebbe un po’ “sbianchettare”, ma per tornare a cosa? Ai conflitti? Alle persone sui tetti? No, dobbiamo andare avanti.
Rispetto alle carceri ungheresi ci differenzia lo sguardo sociale sul carcere, che non deve essere ridimensionato.
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Ci spieghi meglio…
C’è una società civile, cattolica e laica, che continua a svolgere la sua attività e il proprio lavoro di osservazione e di monitoraggio, con associazioni come la nostra. Questo non ci rasserena. I 13 suicidi dall’inizio dell’anno costituiscono un segnale drammatico, che non può essere interpretato solamente come la somma individuale di singole disperazioni. In giro nelle carceri si respira un’aria di chiusura. E questo non va bene perché di fronte al sovraffollamento, alle difficoltà logistiche, alle carceri vecchie e malmesse, agli spazi mancanti, al personale insufficiente non si può chiudere la vita interna degli istituti penitenziari. Non si possono tenere le persone in galera fino all’ultimo giorno senza farle respirare attraverso la progressione trattamentale, sprazzi di libertà da sapersi gestire. Invece questo sta accadendo: si è arrivati a chiudere persino a Natale, nel Lazio, la possibilità di avere il pranzo di Natale comunitario. Che senso ha tutto questo rispetto alla pena prevista in Costituzione? È un’inutile vessazione, un ritorno al passato che nella storia italiana avevamo dimenticato. Ciò irrigidisce, crea conflitti, aumentano le tensioni e le reazioni verso se stessi e verso gli altri, da parte dei detenuti. Stiamo rinunciando a quella che era una grande conquista italiana.
Quale conquista?
Quella di avere un carcere aperto al territorio, pieno di attività, con gente che aveva la possibilità nella giornata di svolgere lavoro, attività e volontariato. In alcune regioni più che in altre (penso al Lazio si stanno chiudendo gli spazi di socialità. Non si tengono le persone chiuse in cella 20 ore su 24, si abbrutiscono.
Perché si chiudono gli spazi?
È una scelta di politica penitenziaria, probabilmente richiesta. Facendo un errore clamoroso: gestire una situazione di chiusura significa tornare al carcere degli anni Settanta.
Cosa bisognerebbe fare?
Dobbiamo spingere affinché si vada in avanti, si innovi. Altrimenti il rischio di emulare il peggio che c’è in Europa, l’Est, diventa un rischio concreto. Ma perché emulare il peggio? Emuliamo il meglio, in cui al centro c’è la dignità delle persone, penso a parte del modello nordico e ad esperienze qua e là, che ci sono state in giro per l’Italia. Noi dovevamo essere il paese da emulare. Avevamo il migliore sistema della giustizia minorile in Europa e poi facciamo il decreto Caivano, ritornando a un’idea antica che per rieducare bisogna incarcerare i ragazzini? Ma è un’idea antipedagogica, questo significa ritornare indietro. Dobbiamo muoverci in un’ottica diversa.
Foto La Presse: Roma – Murales di Laika per Ilaria Salis che spezza le catene
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