Cultura

Giustizia carogna, ultima vergogna

Nel giro di pochi giorni la cultura dell’accanimento giudiziario ha colpito due volte: Mario Tuti e Adriano Sofri. Ecco le loro testimonianze

di Cristina Giudici

Never ending story, ossia la storia infinita di Mario Tuti. Ecco un titolo provvisorio per uno spettacolo degno del peggior teatro dell?assurdo, una scena che ha per unico protagonista un ex terrorista nero a cui sono stati negati tutti i diritti del condannato previsti dalla legge. La storia, ve la raccontiamo, è andata più o meno così. In 24 anni di prolungato isolamento, Mario Tuti nel carcere di Voghera si è laureato alla facoltà di Scienze forestali di Firenze, e ha fondato il laboratorio multimediale Signal Mediars. Un laboratorio che in collaborazione con l?associazione disabili Idea D, ha programmato progetti di intervento sociale e ha addirittura progettato la scenografia dell?opera lirica che ha inaugurato la stagione del Teatro Regio di Parma. Dopo 24 anni, Tuti ha chiesto di poter essere trasferito nella sezione dei detenuti comuni per usufruire dei benefici di legge «perché», come ha scritto al magistrato di sorveglianza, «avendo oramai da un decennio riconosciuto il superamento delle motivazioni personali e sociali delle mie passate scelte di lotta armata, sarei interessato a impegnarmi in un?attività di volontariato dedicata al sostegno di persone disabili o tossicodipendenti. Sia per impiegare in maniera utile le mie energie e competenze sia per riparare alle mie inadempienze di genitore nei confronti dei miei figli». Insomma Mario Tuti, 54 anni, usa un linguaggio burocratico per lanciare un appello. «Sono cambiato», dice nelle sue lettere successive, «aiutatemi a uscire di qui». Così la comunità di recupero per tossicodipendenti Mondo Nuovo, dopo aver appreso proprio da ?Vita? la sua battaglia e la sua storia, gli ha offerto un impiego come «esperto in campo agronomico», inoltrando al Tribunale di sorveglianza di Pavia la richiesta di semilibertà. Ma dopo un anno di odissea giudiziaria e di crudeltà burocratiche è stato ricacciato di nuovo nella sua cella, sezione elevato indice, riservata ai detenuti socialmente pericolosi. Perché? vi chiederete. Perché la giustizia è carogna, è la risposta più semplice, e perché troppo spesso la giustizia in Italia diventa strumento di vendetta. In questo caso l?accanimento giudiziario ha il volto di un giudice, tale Lorenzo Fabris, che a dicembre non si è neppure presentato alla prima udienza e a gennaio ha rigettato la sua istanza di semilibertà «perché mancavano nove mesi per entrare nei termini di tempo previsti dalla legge», afferma uno dei legali di Tuti, l?avvocato Corrado Limentani. «Ma il magistrato poteva sottrarre i mesi che gli mancavano sommando i giorni di liberazione anticipata a cui ogni condannato ha diritto ogni anno. Generalmente questa è una pratica adottata dai tribunali di sorveglianza, ma evidentemente Tuti non è un normale detenuto», aggiunge. Fine della storia. Mario Tuti è tornato a Voghera ripetendo «lo sapevo» e aspettando il prossimo round, forse nel 2001. Ma nel frattempo teme che l?accanimento giudiziario lo condurrà anche all?isolamento diurno previsto per gli ergastolani.
A questo giornale, che sollevò il caso, aveva confessato: «Ho fatto scelte sbagliate, influenzate da un contesto politico violento, e mi dispiace aver spezzato delle vite, ma non ho mai ucciso a sangue freddo. Oggi il mondo è cambiato, ma io sono l?unico a dover pagare duramente. Di me si sono interessati politici, assessori, sindaci, vescovi, volontari. A chi fa paura la mia libertà?» Il suo secondo difensore, il deputato di An Alberto Simeone dice a Vita: «Il magistrato ha fatto ricorso alla rigidità burocratica per togliersi dalle mani una patata bollente. La verità è che Tuti fa ancora paura, eppure è evidente che nonostante non abbia mai voluto assoggettarsi a strumentalizzazioni politiche, abbiamo di fronte un uomo che ha voltato pagina». E questa non è solo l?opinione di un avvocato e di un politico ma è il contenuto delle relazioni spedite dalla direzione del carcere di Voghera al ministero di Giustizia, che qui per la prima volta rendiamo pubbliche. I pareri su di lui sono concordi: l?ex militante di Ordine Nuovo è pronto per il reinserimento. Nella relazione del 1998, il direttore del carcere di Voghera, Agazio Mellace, scrive: «Emerge con forza la sua voglia di riscatto per le lacerazioni provocate nell?ambito familiare e sociale»,e nel ?99 aggiunge: «Sono cambiati i suoi valori di riferimento e sono venuti meno i motivi di conflittualità con le istituzioni». Che tradotto vuol dire: la bestia nera non è più pericolosa, proviamo a dargli fiducia. Ma queste motivazioni non hanno scalfito il giudice che si è addirittura rifiutato di concedergli un colloquio pur essendo obbligato a farlo secondo l?ordinamento penitenziario. «Vorrei uscire per dimostrare che non sono solo il fascista Mario Tuti» ha detto. «E che sono una persona in grado di aiutare gli altri». Ma il giudice Lorenzo Fabris ha detto no, questa scarcerazione non s?ha da fare. Perché? Forse perché in un?intervista Tuti ha dichiarato «dovrò chiedere scusa a molte persone, ma non ai giudici»? Oppure perché ha accusato il magistrato di voler garantire la certezza della pena buttando via le chiavi della sua cella? Mario Tuti è uno dei pochi terroristi che non ha mai potuto ottenere un permesso, un colloquio con i figli, e neanche la possibilità di essere trasferito in una sezione normale. Eppure la guerra, se mai c?è stata, è finita vent?anni fa.

Dal pomeriggio del 24 gennaio, Adriano Sofri è tornato in carcere. Dopo sette sentenze contrastanti, tre ricorsi in Cassazione con esiti contraddittori e il rigetto di un?istanza di revisione della Corte d?Appello di Venezia. Per scontare il resto della sua lunga condanna lo hanno riportato nella stessa cella nel carcere di Pisa dove ha vissuto per due anni e sette mesi, fino all?estate scorsa. Una singola di 8 metri quadri divisi da un muretto, da una parte il cesso e dall?altra la branda. Gentilezze della giustizia italiana. In ogni caso, noi non vorremmo parlare della sentenza né di Adriano Sofri come presunto mandante di un omicidio. Vorremmo ricordarlo in questo momento come lui stesso si è definito: ?una microspia del sistema penitenziario italiano? che, attraverso la rubrica Piccola Posta del quotidiano Il Foglio, le interviste e gli interventi pubblicati su ?Vita?, ha raccontato l?odissea di un popolo invisibile e spesso rassegnato che vive la propria personale tragedia in silenzio, in carcere. Ha denunciato le meschinità di un mondo feroce e sconosciuto e ha ottenuto l?istituzione di una commissione parlamentare sul carcere. Ha narrato le storie sommerse dei detenuti extracomunitari, tossicodipendenti, anziani e ammalati. Innocenti e colpevoli. Perciò ?Vita? ha deciso di ripubblicare stralci dei suoi microfilm.

Venerdì 9 maggio del 1997. Sciopero della fame contro suicidi e atti di autolesionismo a Pisa. Sofri su ?Il Foglio? scrive:
«Gentile dottor Coiro, in questo carcere così privo di brutalità, l?altro ieri un uomo si è tagliato via un dito, poi ha rifiutato per ore di farsi medicare. Un altro uomo si è squarciato un braccio per tutta la sua lunghezza e non si è lasciato mettere i punti. Le cicatrici sul suo corpo, benché sia piccolo e magro, sono la mappa meticolosa del sistema penitenziario italiano. Perché l?ha fatto? Non so. Lei lo sa, la cifra di 27 suicidi in 5 mesi fa impressione. Le persone competenti, a partire da lei, sanno che orrore inutile e crudele sia spesso il carcere e come sia ragionevole correre almeno ad alcuni ripari: depenalizzazione, pene alternative, correzione e ricostruzione della legge Gozzini. Lei sa naturalmente che non sto parlando di me e dei mie due amici. Da quando sono qui ricevo un carico di aspettative, richieste, sfoghi, intimazioni da detenuti di tante carceri. Non penso affatto di avere spalle abbastanza robuste, ma non posso neanche scrollarmelo di dosso. Ovidio Bompressi ha deciso di rendere testimonianza della cattiveria e dell?assurdità della condizione dei detenuti. Così io e Pietrostefani ci siamo uniti a lui in un digiuno. Forse le persone di buona volontà che hanno voce in capitolo potrebbero farne ragionevole uso».

10 ottobre del 1997: la sua agenda contro il sovraffollamento. Mentre fuori si discute la modifica dell?articolo di legge 513 sulla legittimità delle testimonianze dei pentiti, dentro Sofri definisce l?agenda per la giustizia e chiede al governo di liberare un detenuto su tre. Su ?Vita? scrive:
«Il carcere è un mattatoio dove ogni piccola azione di infermeria equivale a un gesto eroico, ma il nostro è un problema di proporzioni. Avere 15mila detenuti in meno è la soglia minima per poter creare le condizioni materiali per fare qualcosa: investire risorse in operatori e progetti di reinserimento. Il nostro problema sarà sempre cambiare il carcere, una macchina digestiva che ogni giorno inghiotte ed espelle migliaia di persone come se fossero residui organici. La maggior parte dei detenuti sono dentro per altro rispetto a ciò che hanno commesso. Vi rendete conto a che punto siamo arrivati?»

16 luglio del 1998, la carità in carcere. Per i racconti estivi del nostro giornale, Sofri scrive la storia vera e commovente di Kaid, un tunisino arrestato per spaccio di hashish che in carcere ruba un orologio d?oro per regalarlo al suo compagno di cella, forse un tangentista, che non riusciva ad adeguarsi alla povertà francescana della galera.

Settembre 1999, il carcere delle domandine. Da osservatore acuto qual è, Sofri attacca il sistema penitenziario, sottolineando i paradossi. Come quelli delle domandine. In un?intervista a ?Vita? afferma: «Il carcere è un luogo di sepoltura e di conservazione. Una specie di frigorifero sociale. Quando sono entrato in carcere nel febbraio del ?97, feci un articolo sulle domandine, i moduli che devi compilare per fare o avere qualsiasi cosa, dal dentifricio alla scatola di tonno, alla telefonata. Il modulo dice ?il sottoscritto? e poi ?prega?e così sollevai il problema del perché i cittadini dovessero pregare, non essendo dei sudditi di un monarca di diritto divino e non potessero invece semplicemente chiedere. Inaspettatamente il ministero dispose subito che la parola fosse sostituita da ?il detenuto richiede?. Poi, sette mesi fa sono ricomparse le domandine con ?prega?. Può darsi che il ministero avesse solo un arretrato di moduli che volesse far fuori, ma più probabilmente è successo che, passato il momento dell?attenzione, tutto è tornato come prima. Insomma il carcere tende sempre a tornare nella situazione precedente, ibernando qualunque tentativo di cambiarlo».

Cosa unisce Mario e Adriano

Lunedì 24 gennaio un uomo, dopo aver perso il suo ottavo processo, si prepara a rientrare in carcere per scontare una pena residua di 17 anni, due mesi e 7 giorni. Con la voce quasi rotta dal pianto afferma: «È una tortura, uguale a quelle di cui si occupa Amnesty. Passeranno sette giorni prima di poter avere una penna stilografica e venti giorni prima di avere un cuscino per i dolori alla cervicale». Una settimana prima, un altro uomo, recluso da un quarto di secolo in una sezione di alta vigilanza, ha guardato negli occhi il giudice che ha dichiarato ?inammissibile? la sua richiesta di semilibertà e non ha detto niente. Il primo uomo è Adriano Sofri, ex dirigente di Lotta Continua, accusato di essere il mandante dell?assassinio del commissario Luigi Calabresi, ucciso il 17 maggio 1972. L?altro uomo è Mario Tuti, ex terrorista nero, accusato e poi assolto della strage del treno Italicus, che ha da poco celebrato le nozze d?argento con il carcere senza mai aver ottenuto il diritto neppure a un giorno di permesso né di poter essere sottoposto a un regime di sorveglianza più morbido. Entrambi sono stati, per motivi diversi, vittime di una giustizia carogna. Adriano Sofri, con l?innocenza che ha promesso di continuare a dichiarare finché avrà vita, vittima di un processo ideologico celebrato a vent?anni di distanza (il pubblico ministero dell?ultimo processo Gabriele Ferrari ha avuto l?ardire di dichiarare che «l?assoluzione degli imputati avrebbe significato uccidere un?altra volta il commissario Calabresi») sulla sola base dei tardivi e contraddittori ricordi di Leonardo Marino. Mario Tuti ha invece ammesso le sue colpe, ma si è rifiutato di fare il capro espiatorio per la ?strategia della tensione?. Nonostante per la legge fosse pronto a usufruire dei benefici di legge, all?udienza del 17 gennaio il magistrato di sorveglianza Lorenzo Fabris è ricorso a un cavillo giuridico per rigettargli la semilibertà.
Queste due illustri seppur diversissime vittime della giustizia italiana, di una giustizia carogna, ci hanno ricordato e raccontato, in questi anni, da dentro le loro celle, le stragi che ogni giorno si compiono nei tribunali e soprattutto nelle galere del nostro Paese. Oggi vogliamo parlare di loro.

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