Economia

Giuseppe Bruno: “Le risorse non bastano: è come le spenderemo che farà la differenza”

L'intervento del presidente del gruppo Cgm: "I tempi sono maturi per inaugurare una politica di “Cluster per l’Economia Sociale”, in cui coltivare una nuova economia di territorio inclusiva ma aperta ed evoluta"

di Giuseppe Bruno

Siamo vicini ad una nuova pagina di storia per il nostro Paese, o almeno questi sono gli auspici di chi è abituato a vedere il bicchiere mezzo pieno. Una copiosa messe di risorse economiche annunciata dalla Commissione Europea per la ripresa economica degli Stati membri, inedita per l’Italia: il Recovery Fund è foriero di rosee aspettative per le nostre piccole grandi imprese piegate dal lockdown, le famiglie, i servizi, i giovani che stentano, ora più di prima, ad entrare nel mondo del lavoro.

Ma è proprio quando la manovra straordinaria è nel suo stadio embrionale, nella nebulosa dei grandi proclami, che si materializza forte il timore da occasioni mancate. Abbiamo imparato, nostro malgrado, che la disponibilità di risorse non è sempre sinonimo di raggiungimento di risultati impattanti. Molto dipende da come le risorse vengono spese, in quale direzione, con quale visione.

In molti casi manca proprio una “cultura del progetto”, felice definizione di Giovanna Melandri. Ed è di progetti efficaci e immediatamente cantierizzabili che abbiamo bisogno ora.

Un valido riferimento in tal senso è la nuova programmazione europea 2021/27, con cui l’Unione ha riassortito il menù delle priorità rispetto alle politiche di coesione e agli obiettivi di sviluppo da traguardare nel prossimo futuro: aumentano gli investimenti per la ricerca e l'innovazione, la connessione, i giovani, la sostenibilità ambientale, l'infrastrutturazione digitale, i diritti sociali.

L’attenzione sociale ovvero la grande assente nelle misure di contrasto alla crisi economica, che pure ci sta insegnando quanto siano improrogabili le risoluzioni e l’impegno verso spinte evolutive socialmente responsabili.

Siamo nella fase più complessa della storia contemporanea a livello mondiale; per questo è imperdonabile qualsiasi spreco, superficialità o negligenza nell’impiego delle risorse economiche. Se si intende parlare di rilancio, non possiamo farlo senza sostenere l’occupazione di qualità, l’istruzione, le competenze professionali, l’accesso equo alla salute, l’inclusione.

Il dibattito pubblico sollecita da più parti un radicale cambiamento nel concetto stesso di sviluppo, facendo prevalere l’inclinazione – l’urgenza ormai – di un approccio inclusivo, che non solo adotti criteri redistributivi di ricchezza, ma che riorienti gli stessi parametri con cui la ricchezza si misura.

Sono fermamente convinto, da tempo, che occorra riconsiderare definitivamente la dialettica tra pubblico, privato e comunità, una “dialettica” che è sempre più “dialogo” e collaborazione osmotica.

CGM, già in occasione della sua Convention tenuta lo scorso ottobre, avanzava la proposta di una tridimensionalità relazionale in cui sancire la circolarità e la parificazione del rapporto tra questi tre grandi vettori. Un’attitudine già assunta come pratica vincente nella cooperazione e nell’impresa sociale.

Ancora una volta, nelle piattaforme europee ritroviamo un corrispettivo di questo mindset: la sua applicazione immediata e concreta è una ricetta di buon governo delle risorse disponibili, da un lato, e delle innumerevoli istanze da considerare, dall’altro. Ma anche una via per sburocratizzare le procedure, convogliando le risorse in reali soluzioni di “bene comune”.

Gli ingredienti ci sono tutti: abbiamo i finanziamenti, le linee di indirizzo, il capitale conoscitivo, la consistenza collaborativa fra attori che, a livelli diversi, esprimono mercato, Stato e privato sociale come ha ricordato Giuseppe Guzzetti. Come nelle ricette più riuscite, abbiamo il legante, la vera ricchezza del nostro Paese: il Terzo Settore, la cooperazione sociale e l’impresa sociale, è l’addensante naturale delle nostre comunità e agente lievitante della coesione sociale, capace di conciliare l’attenzione alle persone e ai loro bisogni con la capacità di creare sviluppo e occupazione. E’ così che l’impresa sociale, già da tempo, mette a terra il suo innato europeismo umanistico.

E’ il momento di dare una cornice strutturale a questo mix di risorse economiche e capacità diffuse, per non disperderle in rivoli confusi. Un banco di prova per dare il via in Italia ad una nuova fase di sviluppo, non più estrattivo ma effettivamente generativo, in cui far convergere le molte sollecitazioni e riflessioni che in questi giorni animano l’opinione pubblica e la stampa del nostro Paese.

I tempi sono maturi per inaugurare una politica di “Cluster per l’Economia Sociale”, in cui coltivare una nuova economia di territorio inclusiva ma aperta ed evoluta. Abbiamo l’opportunità di sperimentare un nuovo modello di sviluppo per le nostre comunità, cornici riconoscibili di collaborazione creativa e condivisione delle risorse tra imprese profit e no profit, istituzioni, istruzione, ricerca.

Anche l'ambizione politica dell'UE verte sull’adozione di strategie e strumenti a supporto delle policy condivise (ad esempio il programma Cosme): cluster regionali come acceleratori di sviluppo, in cui coprogrammare, coprogettare e favorire lo scaling up delle risorse.

Se l'enfasi è sul rafforzamento della coesione sociale e la sua integrazione nelle logiche del mercato, la cooperazione tra imprese, anche quelle tradizionali, è innegabilmente importante per l'economia socialmente sostenibile. Ricerca, università, imprese profit e no profit, fondazioni, enti locali chiamati a collaborare in vista di comuni obiettivi di sviluppo, anche ricombinando risorse pubbliche e private.

Immaginiamo l’Italia della “Fase 3”, con le organizzazioni dell'economia sociale in prima linea nel rilancio del Paese, a loro volta aperte a integrarsi con imprese tradizionali e settore pubblico. In questo modo il Recovery Fund appare molto più lungimirante delle devoluzioni a pioggia, “riparative” ma certo di corto respiro, con un parte delle risorse economiche destinate a cluster territoriali dell’economia sociale.

Ha senso parlarne ora, perché occorre traguardare il futuro con idee chiare e forme possibili di sviluppo partecipato e corale. Risposte immediate ed efficaci ai bisogni vecchi e nuovi che le crisi sanitarie fanno emergere nei loro drammatici risvolti socio-economici – e che irrompono con preoccupante urgenza proprio nel post covid19.

I Cluster dell’Economia Sociale si candidano ad essere nuove piattaforme di “democrazia applicata e di sviluppo inclusivo condivise con i decisori politici.

In CGM lo diciamo da tempo: ricomporre per innovare. Non possiamo mancare anche questa occasione.

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