Femminicidi
Giulini (criminologo): «Gli autori di femminicidio non sono mostri e nemmeno matti»
«La cultura maschilista è ancora molto viva nelle nuove generazioni e si intreccia spesso con le difficoltà e fragilità personali dei ragazzi di oggi»: è il commento del criminologo Paolo Giulini, che da 30 anni lavora con i giovani autori di reati sessuali. «Questi ragazzi, però non sono mostri. Sono individui che faticano nel riconoscere alle coetanee autonomia, libertà e dignità»
Il fatto che la nuova generazione sia depurata da una cultura maschilista e tossica è forse un postulato, un principio indimostrato la cui validità ci accontentiamo di riconosce a priori. Se osserviamo i femminicidi degli ultimi mesi però è facile notare come siano tante le violenze tra giovani: Giulia Tramontano che stava per avere un bambino; Maria Causo (17 anni) uccisa e gettata vicino ai cassonetti. Non sono casi isolati. Nel 2017 Noemi, che aveva 16 anni, è stata uccisa dal suo fidanzato, che di anni ne aveva appena uno in più. Nel 1996 Jessica F. è stata uccisa a sedici anni con quarantadue coltellate, fuori da scuola, dal suo ex ragazzo Luca F.; nel 2015 Giordana Di Stefano, uccisa alle pendici dell’Etna con 48 coltellate dal padre di sua figlia: 20 anni lei, 24 lui, arrestato a Milano, stava per partire alla volta della Svizzera.
Elena Cecchettin, sorella dei Giulia, la ragazza di 22 anni uccisa ha detto chiaramente che gli uomini che compiono questi reati «Non sono “mostri”, non sono malati, sono figli sani del patriarcato».
Su questi temi abbiamo intervistato Paolo Giulini, criminologo clinico, cofondatore del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione – Cipm che vanta una trentennale esperienza con i giovani autori di reati sessuali presso la Casa di reclusione di Milano-Bollate.
Dottor Giulini, i giovani autori di reati sessuali e di genere che lei incontra sono mostri?
Gli autori di reati così violenti non sono mostri. Definirli “mostri” significa utilizzare uno stigma che consente di prendere le distanze da un problema che ci turba profondamente, come individui e come collettività. Ci dà una scorciatoia per evitare di affrontare il problema, ci spinge a negarlo o occultarlo.
Gli autori di reati così violenti non sono mostri. Definirli “mostri” significa utilizzare uno stigma che consente di prendere le distanze da un problema che ci turba profondamente, come individui e come collettività. Ci dà una scorciatoia per non affrontare il problema
Paolo Giulini, criminologo clinico
Qual è il problema?
La violenza contro le donne rappresenta un fenomeno profondamente radicato nel substrato culturale e sociale, sia in Italia che nel resto del mondo. La violenza di genere ha radici culturali, storiche, economiche, sociali e non è legata a cause contingenti. Solo (molto) raramente è legata a dinamiche psichiche.
Chi sono allora questi giovani autori?
Gli autori di reati violenti, in particolare i giovani adulti, sono persone che potenzialmente hanno bisogno di aiuto, di affrontare, nell’ambito di uno specifico percorso trattamentale, i propri aspetti “mostruosi”, ma anche di conoscere meglio le proprie risorse, per assumersi la responsabilità di quanto commesso e evitare di recidivare, ma anche per avere una migliore qualità della vita e delle relazioni.
In un’intervista sulla stampa, anche dopo l’arresto, Nicola Turetta, il padre di Filippo, ha detto che suo figlio è “Un ragazzo normale, praticamente perfetto. Uno sempre bravo a scuola. Era un buono, un ragazzo molto tranquillo”. Cosa ne pensa?
Ogni caso ha le sue specificità. Non mi sento in grado di parlare di una situazione che non conosco direttamente. Osservo però che la quasi totalità degli autori non ha agito in preda a raptus, a impulsività, a un’esplosione imprevedibile di rabbia. Quello che alcuni chiamano gelosia è invece un atto di dominio di un individuo (uomo) che fatica nel riconoscere ad un altro individuo (donna) autonomia, libertà e dignità.
La quasi totalità degli autori non ha agito in preda a raptus, a impulsività, a un’esplosione imprevedibile di rabbia
Paolo Giulini, criminologo clinico
Non si improvvisa
Nella quasi totalità dei casi, il femminicidio è un crimine puntualmente preordinato nelle fasi antecedenti alla sua esecuzione. Sono tanti gli indizi: dietro la promessa dell’amore e della protezione si nascondono spesso le catene del controllo affettivo, sociale ed economico ma talvolta manca la cultura per riconoscere questi gesti come manifestazione di una violenza».
Dal punto di vista di un criminologo, i giovani sono sempre stati violenti?
Le potenzialità violente dei giovani, per esempio nell’esercizio della sessualità, sono dimostrate dalla letteratura clinica internazionale. E ciò non solo in questi ultimi decenni. Già nel 1979 il National Crime Survey segnalava che il 22% delle violenze carnali in USA erano commesse da adolescenti tra i 12 e i 19 anni.
33% dei reati di abuso sessuale in USA sono commessi da adolescenti a danno di altri minori. 14 anni è l’età picco della sessualità deviante.
Quelli di oggi sono più violenti?
La diversità dei ragazzi della ‘Generazione Zeta’ rispetto alle generazioni precedenti consiste in una maggiore fragilità, anche a fronte della crisi di modelli culturali, familiari e istituzionali. Questa condizione è accompagnata dalla sopravvivenza dei meccanismi culturali della diseguaglianza di genere, e questi stessi giovani maschi, talvolta sessualmente impotenti o inibiti, sperimentano blocchi emotivi in seguito a vissuti rancorosi per il rischio della perdita della rassicurazione con il possesso e l’inanellarsi ostile delle dinamiche di gelosia.
Cosa intende con “impotenti”?
Mi riferisco alla recentissima ricerca degli andrologi italiani che rileva come 1 minore su 3 abbia attività sessuale solo online e che 1,6 milioni di giovani tra i 18 e i 35 anni non ha mai rapporti sessuali. Altro dato inquietante riguarda i contenuti sessuali espliciti messi in rete da minorenni che negli ultimi tre anni sarebbero aumentati del 273%. Sembrerebbe che oggi la maggiore agenzia educativa dei ragazzi siano i portali pornografici.
Secondo la survey “Teen Community” realizzata da Fondazione Libellula tra 400 giovani di tutta Italia solo il 33% dei ragazzi tra i 18 e i 19 anni ritiene inaccettabile che un ragazzo diventi violento in seguito a tradimento, contro il 79% delle ragazze, o ancora, solo il 29% degli adolescenti non è d’accordo sul fatto che il controllo non è sinonimo d’amore (contro il 48% delle ragazze). In generale, dunque, le dinamiche alla base di una relazione affettiva sana sembrano non essere sempre chiare: gelosia, possesso, aggressività e invasione vengono considerate come espressione d’interesse e attenzione da parte del partner. Cosa ne pensa?
La diffusione di tali stereotipi mi pare un segnale di quanto la cultura maschilista sia ancora molto viva, e di quanto, nel contempo, ciò si intrecci in modo complesso con le singole storie biografiche, con difficoltà e fragilità personali.
Foto in apertura: Morgan Basham by unsplash
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