Cultura

Giù le mani dal mondo

“Fantasia di economisti pop”, “ossessione falsa e pericolosa”, “progetto oppressivo”: gli studiosi analizzano il fenomeno e lanciano l’allarme

di Francesco Maggio

Se si provasse a stilare una sorta di classifica dei vocaboli più usati (ed abusati) degli ultimi anni, sicuramente il termine globalizzazione figurerebbe nelle prime posizioni. Di questa parola, che sottintende profonde trasformazioni in campo sociale, economico, tecnologico e politico se ne parla e scrive talmente tanto che sono ormai entrati a far parte del lessico comune numerose espressioni che, a vario titolo, la evocano: internazionalizzazione dei mercati, finanziarizzazione dell?economia, mercato globale, società planetaria, ecc.
Al di là, però, di tale diffusa familiarità terminologica con il fenomeno della globalizzazione, rimangono ancora poco conosciuti molti dei suoi volti. Soprattutto quelli meno rassicuranti, possibili cause di diseguaglianza ed esclusione sociale.
Tre libri recentissimi mettono la globalizzazione sotto processo e, contribuiscono a ridimensionare un ?mito?.
Il primo: Un?ossessione pericolosa, di Paul Krugman (Etas libri, lire 25.000), professore di economia presso il MIT (Massachussetts Institute of Technology). L?autore punta l?indice contro quelli che ama definire i ?pop economisti internazionali?, sempre pronti a disegnare scenari immaginifici con il supporto di dati clamorosamente inaffidabili.
Il secondo: Fuori controllo, di Saskia Sassen (Il Saggiatore, lire 28.000), professoressa di Pianificazione urbana alla Columbia University di New York. La Sassen sostiene che la globalizzazione, dopo aver trasformato la territorialità e la sovranità dello Stato nazionale, potrebbe avere un impatto simile sulla cittadinanza, privandola di quei diritti che tradizionalmente garantiscono ai cittadini un controllo sulle attività politiche dei governi.
Il terzo: La società decente, di Avishai Margalit (Edizioni Guerini e associati, lire 45.000), professore della Hebrew University di Gerusalemme. Margalit, pur non incentrando la sua analisi espressamente sul fenomeno della globalizzazione, implicitamente, rinvia ad essa di continuo. Egli, infatti, ritene che una società buona da viverci sia quella in cui le persone non vengano umiliate, in particolar modo dalle istituzioni.
Ma se le istituzioni vedono sempre più minata la loro autonomia di intervento (ad esempio, in tema di politiche sociali) dalle regole della competizione globale, i cittadini non corrono il rischio di vivere in una società ?indecente??

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