Sostenibilità

Giovannini: «Migranti, povertà, ambiente: lo sviluppo del nostro sistema si decide qui»

Intervista a tutto campo con l'ex ministro e presidente dell'Istat oggi Portavoce Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile: «Avere oltre 120 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale non è sostenibile per le istituzioni politiche. E vediamo come l’elettorato si stia spostando su posizioni popoliste in tutto il continente. Ma lo è anche sul piano economico, perché l’incertezza spinge a rinviare le spese e questo deprime la crescita»

di Monica Straniero

Con l'approvazione dell'Agenda 2030 dell'Onu, tutti i paesi del mondo dovranno applicare in concreto i 17 obiettivi di Sviluppo sostenibile contenuti nell'Agenda. Di fatto, si avvia un processo che condurrà ad un nuovo modello di sviluppo che vada oltre il Pil, evitando cioè di basarsi unicamente su una crescita quantitativa e che punti sul rispetto e la tutela del capitale naturale del pianeta. Vita.it ne ha parlato con Enrico Giovannini, professore di Statistica Economica all’Università Tor Vergata di Roma e Portavoce Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), che il 5 maggio ha tenuto la Peccei Lecture del 2016, evento organizzato da Club di Roma e WWF.

Rispetto agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, quali sono le sfide che attendono l’Europa e in particolare l’Italia?
L’Europa e l’Italia già oggi si impegnano in politiche settoriali rilevanti per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile e migliorare la qualità della vita dei cittadini. Ma la vera sfida è quella di pensare a tali politiche in modo integrato, secondo uno schema concettuale molto più complesso, che tenga in considerazione anche la dimensione di lungo termine. Ciò implica, ad esempio, adottare modelli di valutazione di una particolare legge pensando agli impatti che essa potrà avere su altre dimensioni dello sviluppo economico, sociale ed ambientale. Insomma, adottare il quadro dello sviluppo sostenibile richiede uno straordinario sforzo di coordinamento delle politiche settoriali, una funzione tipica, in Italia, della Presidenza del Consiglio.

Quando dice: “È la complessità del pensiero quello di cui abbiamo bisogno per salvare il mondo”, cosa si riferisce?
Negli ultimi 70 anni il mondo ha realizzato uno sviluppo economico e sociale senza precedenti, ma il modello che è stato seguito non ha considerato le implicazioni ambientali, cosicché oggi ci troviamo ad affrontare rischi straordinari per il benessere delle persone, in tutto il mondo, come il cambiamento climatico. Quando pensiamo ai flussi di migranti verso l’Europa non dobbiamo dimenticare le cause che generano tali flussi, che sono di natura istituzionale, economica ed ambientale. Di conseguenza, se vogliamo evitare che le soluzioni proposte a questi problemi siano inefficaci dobbiamo comprendere appieno la complessità delle interrelazioni tra i diversi aspetti.

Lei ha cita spesso i cosiddetti tipping points: vale a dire fenomeni che pensavamo di gestire in modo lineare ed invece richiedono un approccio diverso. Può farci qualche esempio?
Gli esperti di questioni ambientali hanno ormai sviluppato modelli che ci consentono, per alcuni fenomeni, di valutare quanto siamo lontani dai limiti planetari o se li stiamo superando. Ebbene, quando ci si avvicina ad un limite specifico accade che l’instabilità di quel fenomeno genera instabilità in altri fenomeni: si pensi al riscaldamento globale, che genera lo scioglimento dei ghiacci, che a sua volta influenza il clima e determina fenomeni estremi come uragani, alluvioni o siccità. Lo stesso vale per i fenomeni economici, sociali e politici: un flusso di migranti verso l’Europa pari a circa lo 0,4% della popolazione sta generando reazioni sociali e politiche di enorme rilievo. Ecco questi sono esempi di non linearità che dovremmo essere capaci di evitare intervenendo “a monte” e non “a valle”, cioè in ritardo. Ma per fare questo bisogna essere capace di pensare in termini di lungo termine.

Si stima che nei prossimi venti anni i migranti ambientali saranno 250 milioni e ben 50 provenienti dall'Africa. Come si può far fronte a questo fenomeno ancora sottovalutato?
Sono oltre 40 anni che i demografi ci avvertono dell’inevitabilità di massicce migrazioni dall’Africa all’Europa. Queste previsioni avrebbero dovuto spingere l’Europa ad impegnarsi molto di più nel favorire lo sviluppo economico del continente africano. Ora stiamo vedendo solo l’inizio di un fenomeno che caratterizzerà i prossimi decenni. Credo non ci sia alternativa ad un massiccio investimento di risorse per accelerare la capacità dei paesi africani di dare risposte soddisfacenti alle aspettative delle proprie popolazioni.

La crisi economica avviata nel 2009 si è trasformata in crisi sociale. C’è il rischio che si trasformi in crisi politica? E con quali conseguenze?
Avere oltre 120 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione sociale non è sostenibile per le istituzioni politiche. E vediamo come l’elettorato si stia spostando su posizioni popoliste in tutto il continente. Ma lo è anche sul piano economico, perché l’incertezza spinge a rinviare le spese e questo deprime la crescita, quindi la creazione di nuovi posti di lavoro. Questo mostra che non c’è un “prima” (l’economia) e un “dopo” (la società), ma che le varie dimensioni sono profondamente interrelate e che le politiche sociali non possono essere separate da quelle economiche.

Quello delle disuguaglianze è un tema ricorrente nelle sue lezioni. Come si può ridurre il gap tra ricchi e poveri? In Italia?
Il peggioramento delle diseguaglianze si sta manifestando in tutti i Paesi, anche in quelli scandinavi, che per decenni sono stati considerati un modello. Ciò sta avvenendo a causa di profondi cambiamenti nel funzionamento dei sistemi economici, che mettono a rischio la coesione sociale, specialmente quando, come avviene in Italia, le disuguaglianze si trasmettono tra generazioni. Oltre 4 milioni di poveri assoluti, di cui oltre 1,1 milioni sono minori, rappresentano un problema enorme, ma la politica se ne occupa solo marginalmente, anche perché normalmente i poveri non votano. Sono lieto che il Governo, finalmente, abbia deciso di investire sul Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) che avevo avviato quando ero Ministro. Le risorse stanziate sono decisamente insufficienti, ma l’introduzione di un sistema di reddito minimo in Italia rappresenta un fondamentale passo in avanti.

Benessere, qualità della vita, progresso, sostenibilità, felicità: sono tutti termini fra loro assai differenti, ma spesso e volentieri raggruppati in espressioni ad effetto con lo scopo di proporre una visione al di là del Pil. Cosa significa, dunque, misurare il benessere?
Significa riconoscere che, oltre alla dimensione economica, ci sono altri elementi fondamentali che fanno la qualità della vita delle persone e delle comunità. Questo approccio apre opportunità straordinarie per avviare politiche “che non costano”, ma che possono fare la differenza, come quelle che stimolano le attività del Terzo Settore e la vivacità delle comunità locali. Oppure, riconoscere che una politica orientata a riqualificare le città può produrre occupazione, migliorare l’efficienza energetica, rendere l’ambiente migliore e aumentare la qualità della vita delle persone. Se, invece, si pensa che l’economia sia il fattore trainante di tutto il resto allora si può decidere di stimolare i consumi con trasferimenti puramente monetari, magari stupendosi successivamente se l’effetto macroeconomico non è così elevato come atteso.

Secondo alcuni analisti, entro il 2030 il sistema globale subirà un collasso? Come si può invertire la tendenza?
I rischi per la insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo sono stati alla base dell’adozione dell’Agenda 2030 da parte dei leader di tutto il mondo. E il tempo disponibile per rendere il mondo sostenibile è molto limitato. Bisogna utilizzare le tecnologie disponibili per accelerare la transizione a modelli di consumo e di produzione più sostenibili, bisogna accelerare l’uso di energie rinnovabili, vanno affrontate le disuguaglianze, comprese quelle di genere, che avvelenano il funzionamento di tante società. E potrei continuare. Direi che i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile sono quelli che dovrebbero guidare le scelte pubbliche e private in tutti i paesi. Per spingere l’Italia e i suoi cittadini a prendere seriamente questi impegni e a fare le “cose giuste” abbiamo creato l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), mettendo in rete più di 100 tra le organizzazioni più importanti della società italiana. Questa è una sfida cruciale non solo per le future generazioni, ma anche per l’attuale. Il 2030 è molto vicino, per questo non c’è tempo da perdere.

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