Cultura
Giovanni: «Ho 12 anni e sono sieropositivo»
Fondazione Arché presenta il libro edito da Chiarelettere "Se hai sofferto puoi capire", dove lo scrittore Francesco Casolo ha raccolto la testimonianza di un ragazzino di 12 anni sieropositivo. «Mi hanno detto che non devo aver paura perché non cambierà nulla, ma ora che lo so devo fare attenzione, non devo dirlo a nessuno, perché la mia malattia spaventa più quelli che non ce l’hanno che quelli che ce l’hanno...», Giovanni F.
di Anna Spena
Stasera alle ore 18:00 Fondazione Arché celebra la Giornata Mondiale contro l'Aids presentando il libro “Se hai sofferto puoi capire”, di Giovanni F. e Francesco Casolo, nella Casa dei Diritti in via de Amicis 10, a Milano. Il libro, edito da Chiarelettere nel 2017, racconta in 150 pagine la storia di Giovanni, dodicenne che scopre di essere sieropositivo, dal punto di vista semplice e ironico dello stesso Giovanni. Arché presenta il libro perché compare nella storia raccontata da Giovanni: qualche anno fa infatti lo ha affiancato per un tratto nel suo percorso di adolescente con l’Aids: “Il tema ci sta molto a cuore – ha commentato padre Giuseppe Bettoni, fondatore e presidente della Onlus – negli anni Novanta Arché nacque proprio per rispondere all’emergenza dell’HIV pediatrico e per sostenere i bambini affetti e infetti dall’Aids e le loro famiglie.
Giovanni F. è un bambino nato sieropositivo, in cura presso il reparto malattie infettive pediatriche dell’Ospedale Sacco di Milano, dove Arché è attiva da molti anni con un gruppo di volontari. La sua leggerezza, il suo entusiasmo e la sua voglia di vivere hanno colpito i medici dell’ospedale e la sua storia è arrivata a Francesco Casolo, editor e scrittore, che ha deciso di raccontarla per Chiarelettere. Questo libro affronta un tabù per diffondere anche una cultura della prevenzione e lo fa non con una denuncia ma con la voce e il linguaggio di un bambino che sta cercando la sua strada per essere felice.
Vita.it intervista Francesco Cosolo che ha raccolto e trasformato in parole la testimonianza di Giovanni.
Mi hanno detto che non devo aver paura perché non cambierà nulla, ma ora che lo so devo fare attenzione, non devo dirlo a nessuno, perché la mia malattia spaventa più quelli che non ce l’hanno che quelli che ce l’hanno
Giovanni F., 12 anni
Com'è nato "se hai sofferto puoi capire?"
Chiarelettere aveva notato il blog Giù la maschera, http://www.smemoranda.it/giu-la-maschera-una-lettera-alla-smemo, nato da un’idea di Smemoranda e lo staff del Sacco per offrire ai ragazzi una valvola di sfogo. L’idea era quella che grazie al blog i ragazzi potessero condividere i loro pensieri non solo all’interno del loro gruppo ma rivolgendosi al mondo esterno, quello dei “normali”. C’erano delle storie e delle voci interessanti e siccome di lavoro faccio questo, scrivere a partire da storie vere, mi hanno chiamato e consigliato di andare a fare un giro. Non ci ho messo tanto a farmi conquistare dall’entusiasmo di medici e volontari e dalla forza che questi ragazzi trasmettevano con le loro esperienze. E, soprattutto, ho capito che non si sarebbe parlato solo di malattia ma soprattutto di vita: amore, amicizia, dolore, gioia…
Il titolo è molto forte, significa che solo chi ha provato questo tipo di dolore, anche fisico, può capire?
Il titolo nasce proprio dal blog e proprio dal titolo di un post di uno dei ragazzi protagonisti del libro che, in un momento delicato della sua vita, lanciava una sorta di grido: anche a voi sarà successo di soffrire, no, e allora perché sembrate non capire come mi sento?
Perché la scelta della prima persona?
Perché volevo essere il più possibile diretto, immediato, e perché la voce di Giovanni era forte non solo per il suo valore di testimonianza ma anche per la vitalità che comunicava. Era la voce di un ragazzino in un’età di passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza, a cui avevano appena detto di essere sieropositivo e che viveva questa cosa con un misto di rabbia, voglia di riscatto e, anche, una strana sensazione di essere in qualche modo speciale, come un supereroe.
Quando hai incontrato Giovanni?
Più o meno un anno prima dell’uscita del libro, sono andato a parlare con lo staff del reparto di pediatria che aveva fatto una sorta di casting interno e pensato che Giovanni fosse la persona più giusta per dare voce a questa storia. Sono stato lì un po’ e poi è arrivato facendo lo scemo con mezzo ospedale e quando ha capito chi ero mi ha detto: ah, tu sei quello del libro? Allora è con me che devi parlare…e così abbiamo cominciato il nostro viaggio.
Quanto, ancora oggi, sono stigmatizzate dalla società le persone sieropositive?
Purtroppo, parlando con tanti ragazzi, molto più di quanto si creda. Una ragazza di Torino, ad esempio, che nel libro chiamiamo Elettra mi ha raccontato di aver perso un lavoro in un archivio dopo averlo comunicato. Semplicemente, qualche giorno dopo le hanno detto che forse era meglio che…insomma, ci spiace, ma non è il caso. Oppure ho sentito di ragazzi esclusi dalle attività sportive sempre per lo stesso problema. Per non dire ovviamente del rapporto con i pari che spesso è problematico, non è un caso che i nomi nel libro siano stati tutti cambiati. Come mi ha detto un ragazzo: bisogna avere un radar per capire chi è in grado di accettarlo e chi un istante dopo comincerà a prendere le distanze.
Qual è il ruolo di Fondazione Arché all'interno del testo?
Con Giovanni, che è un po’ il più giovane del gruppo, abbiamo giocato sul fatto che dovevamo fare un’indagine che partisse dall’incontro con ragazzi sieropositivi più grandi di lui e da alcune domande: come avete fatto a crescere, come hai fatto a trovare una fidanzata, a fare amicizia anche se eri sieropositivo… Nella maggior parte dei casi questi ragazzi hanno raccontato quanto sia stato utile per loro la presenza di Arché che negli anni Novanta, nel periodo della massima emergenza, nacque proprio per rispondere all’emergenza dell’HIV pediatrico e per sostenere i bambini affetti e infetti dall’Aids e le loro famiglie. Si facevano viaggi, gite, attività nel tempo libero e tutti ne portano un bel ricordo.
Quanto può aiutare i giovani una testimonianza di questo tipo?
Quello che cerchiamo di fare quando andiamo nelle scuole è spiegare cos’è l’HIV, invitare a non abbassare la guardia e, contemporaneamente, a prendere esempio da un ragazzino come Giovanni che è la prova vivente che con tenacia, un certo sense of humour e forza di volontà è possibile superare gli ostacoli che ci pone la vita e anche ridere degli stessi. Come detto, il centro del racconto non è la malattia ma una cosa molto più universale: la ricerca della felicità. Niente di diverso quindi da quello che desideriamo tutti: essere amati, protetti, realizzare i nostri sogni.
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