Salute
Giovanna Zamboni, la professoressa che studia i sintomi misteriosi dell’Alzheimer
La professoressa ha appena vinto un sostanzioso finanziamento di oltre 1 milione e 200 mila euro da parte dell’ERC (European Research Council) per indagare i meccanismi cerebrali che causano alcuni fra i sintomi più bizzarri ed “inspiegati” della malattia di Alzheimer e di altre forme di demenza
Nonostante i passi avanti compiuti dalla ricerca negli ultimi vent’anni, restano ancora numerosi interrogativi intorno alle cause e alle manifestazioni delle malattie neurodegenerative, come quella di Alzheimer.
Giovanna Zamboni, Professoressa di Neurologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha appena vinto un sostanzioso finanziamento di oltre 1 milione e 200 mila euro da parte dell’European Research Council, sezione Starting Grant per indagare i meccanismi cerebrali che causano alcuni fra i sintomi più bizzarri ed “inspiegati” della malattia di Alzheimer e di altre forme di demenza, che fino ad oggi sono stati poco studiati. Il suo è un risultato di particolare prestigio, considerando che nel nostro Paese solo 28 progetti di ricerca sono stati giudicati meritevoli di finanziamento da parte di Bruxelles.
La ricerca, che durerà cinque anni, proverà a dare risposta a questa domanda: come può il cervello umano, anche quando è affetto da malattie neurodegenerative come quella di Alzheimer, essere in grado di dar forma a sintomi “produttivi” , per esempio a convinzioni false e a volte deliranti, comunque molto complesse e ben strutturate da un punto di vista cognitivo?
«Una componente fondamentale della coscienza umana è la capacità di riflettere ed essere consapevoli di noi stessi e di ciò che ci circonda», spiega la ricercatrice. «In alcune malattie neurologiche come la malattia di Alzheimer questa consapevolezza progressivamente svanisce, con conseguenze drammatiche per la persona affetta e chi le è vicino. Molte persone colpite da malattia di Alzheimer sono convinte di non avere alcun disturbo cognitivo. Altre sviluppano veri e propri deliri di persecuzione, di furto o altre idee deliranti. Questi pazienti sono i più difficili da aiutare perché non si fidano di chi è loro vicino, rifiutano ogni aiuto e ogni cura. Questi sintomi sono causa di grande sofferenza, sia per il paziente che per i loro familiari».
Professoressa, a chi si rivolge la sua ricerca?
«Si tratta di una ricerca clinica perché la maggior parte degli studi della ricerca coinvolgerà pazienti con una diagnosi di malattia di Alzheimer, ma alcuni specifici studi sempre parte della stessa ricerca coinvolgeranno invece pazienti con altre malattie neurodegenerative come per esempio la malattia di Parkinson e la malattia di Huntington, oltre a persone cognitivamente sane di età e sesso simile ai pazienti reclutati che fungeranno da gruppo di controllo. Inoltre, coinvolgerà anche i loro caregivers ovvero le persone che si prendono normalmente cura di loro, siano essi familiari o amici».
Come si svolgerà?
«Ai pazienti reclutati sarà chiesto, a seconda del tipo di studio a cui partecipano, di sottoporsi a valutazioni neuropsicologiche ripetute nel tempo, e/o ad uno o più esami di risonanza magnetica cerebrale. Ai caregivers sarà chiesto di rispondere a domande riguardanti il comportamento e la personalità del loro caro. La valutazione neuropsicologica è un colloquio in cui un esaminatore somministra al paziente vari tests (mediante carta e penna o computerizzati) per misurare la sua performance in diverse abilità cognitive quali memoria, linguaggio, attenzione. La risonanza magnetica cerebrale nei pazienti con demenza serve solitamente a misurare quanto avanzato è il grado di atrofia ovvero di perdita di cellule cerebrali in diverse aree del cervello. In aggiunta alle sequenze di risonanza solitamente usate nella pratica clinica, nei nostri studi acquisiremo anche sequenze funzionali, che permettono di visualizzare il funzionamento del cervello, sia a riposo, sia durante l’esecuzione di compiti. Per intenderci, ad alcuni pazienti mentre sono nello scanner di risonanza saranno mostrate immagini o parole su uno schermo, e sarà loro chiesto di rispondere ad un semplice compito premendo un pulsante con la mano. Sara` poi compito di noi ricercatori quello di analizzare mediante analisi molto complesse le connessioni cerebrali alla base del funzionamento cerebrale in ogni paziente, e metterle poi in relazione agli specifici sintomi».
Quale risultato vorrebbe raggiungere?
«Vorrei dimostrare che il fatto che solo alcuni pazienti, non tutti, sviluppino alcuni sintomi complessi come la non consapevolezza di malattia (anosognosia) ed i deliri di persecuzione dipende da come queste persone hanno usato il cervello nella loro vita, dalla loro personalità e dalle loro abitudini di vita, e da quali connessioni cerebrali hanno così facendo rafforzato piuttosto che indebolito, ben prima di sviluppare la malattia stesso. Un risultato molto concreto che vorrei raggiungere è quello di identificare quale specifico neurotrasmettitore è alla base di questi sintomi, con l’obiettivo nel lungo termine che un domani lo si possa modulare farmacologicamente per migliorare appunto gli stessi sintomi. Comunque, anche nel caso le mie specifiche ipotesi non risultassero poi confermate sperimentalmente, spero che il nostro lavoro contribuisca a cambiare la prospettiva della ricerca neuroscientifica sulle malattie che causano demenza, spostando il focus dallo studio di “ciò che è andato perso e non funziona più” allo studio di “ciò che è rimasto e sta adattandosi al danno».
Spero che il nostro lavoro contribuisca a cambiare la prospettiva della ricerca neuroscientifica sulle malattie che causano demenza, spostando il focus dallo studio di “ciò che è andato perso e non funziona più” allo studio di “ciò che è rimasto e sta adattandosi al danno.
Giovanna Zamboni
Ci spiega cos è la anosognosia e perché è grave?
«La anosognosia è la mancata consapevolezza da parte del paziente di un sintomo neurologico di cui e` affetto. Nel caso di malattie che causano demenza fra cui la malattia di Alzheimer, anosognosia si riferisce alla mancata consapevolezza dei propri disturbi cognitivi da parte del paziente. Ad esempio, un paziente con un severo disturbo di memoria dovuto alla malattia di Alzheimer è anosognosico se è convinto di non avere alcuna difficolta` cognitiva e di avere una memoria perfetta.
Nella malattia di Alzheimer la anosognosia non è una costante, ovvero a fianco dell’esempio di cui sopra, esistono anche persone con questa malattia che sono perfettamente consapevoli delle proprie difficoltà».
Come mai si sviluppa?
«Quali sono le ragioni per cui alcuni pazienti sviluppino anosognosia fin da subito mentre altri rimangano consapevoli fin nelle più avanzate fasi di malattia, a partita` di gravità di malattia e deficit cognitivo, non è del tutto noto, e sarà oggetto della nostra ricerca. Quando presente in forma severa, la anosognosia può avere conseguenze drammatiche, sia per il paziente, che per i familiari che lo assistono».
Questo impatta parecchio sulla vita dei caregivers, vero?
«Prendersi cura di una persona con demenza che crede fermamente di non avere alcun disturbo, quando magari non è più in grado di orientarsi o ricordare i propri dettagli anagrafici, è estremamente difficile e frustrante. Inoltre i pazienti con anosognosia sono spesso diagnosticati più tardivamente, perché rifiutano di andare dal medico, quindi hanno accesso ritardato ai trattamenti disponibili. Infine i pazienti con anosognosia si mettono più facilmente in situazioni di rischio, come per esempio l’uscire non accompagnati con il rischio di perdersi».
Quante persone lavoreranno alla ricerca?
«Potrò assumere 3 nuove figure di ricercatrice o ricercatore con competenze che spaziano fra neurologia, psicologia, fisica e matematica. Avremo anche il supporto di un project manager. Queste persone si aggiungeranno gruppo esistente di neuroscienziati imagers (ovvero coloro che utilizzano tecniche avanzate di imaging per capire il funzionamento cerebrale) dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e collaboreranno strettamente con i clinici che operano nel nostro centro di Neurologia cognitiva (o centro per disturbi cognitivi e demenze, CDCD) di Modena, in cui io stessa pratico come neurologa».
Anche lei è un cervello che torna a casa?
«Mi sono laureata Medicina e specializzata in Neurologia in Italia, poi ho lavorato all’estero come neurologa accademica e ricercatrice per quasi 12 anni, prima al National Institutes of Health (NIH, USA) e poi più a lungo presso l’Università di Oxford (UK), dove ho completato un dottorato nel 2013. La mia ricerca è sempre stata focalizzata sull’utilizzo di tecniche avanzate di neuroimaging per studiare le malattie che conducono a demenza, con l'obiettivo di identificarne i segni più precoci o studiare sintomi particolari come quelli oggetto di questo progetto finanziato dall’ERC. Ho anche sempre continuato a lavorare come neurologa con specializzazione nell’ambito delle demenze: è infatti dall’osservazione dei pazienti che nascono le domande e le ipotesi a cui poi la ricerca cerca di rispondere. Da pochi anni sono rientrata in Italia con la mia famiglia. Dal 2019 ho il ruolo di Professore Associato di Neurologia presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Vivo ora a Reggio Emilia (dove sono nata) insieme a mio marito e ai nostri due bambini».
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