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Giovanna e il suo papà

film Dramma familiare nella Bologna degli anni 30

di Redazione

Sostiene Jean Starobinski che il dono può essere di due tipi: “fastoso” e “perverso”. Essendo il secondo quello che crea dipendenza, instaura una relazione non paritaria e in una certa misura condanna colui che lo riceve a una esistenza fondata sulla “reazione” (e non sull’azione, più propositiva e libera). È questa la dialettica sotterranea che inquieta e colpisce in Il papà di Giovanna, ultima pellicola – densa e profonda – di Pupi Avati (grazie alla quale Silvio Orlando, nel ruolo del genitore, ha vinto la Coppa Volpi all’ultima Venezia). Una dialettica affrontata con onestà e rigore: quel padre che dà tutto, davvero tutto, alla propria figlia, cosa – in realtà – le sta donando? Le offre la perversione di un io ipertrofico che si fa protettivo e invadente? Oppure il fasto di una relazione speciale, autentica, unica? Una domanda non retorica, che ha mille e una implicazioni, in particolare in un tempo in cui a proposito di famiglia la retorica scorre a fiumi…
Un po’ come avveniva a Bologna negli anni 30, il periodo buio in cui Avati (che è anche sceneggiatore) ha ambientato la vicenda. Una ragazzina bruttarella ma soprattutto assai problematica (una persuasiva Alba Rohrwacher). Un affetto paterno che fa velo. Una madre a sua volta irrisolta e fragile (Francesca Neri). Ma anche il fascismo, i presunti nemici del regime, il conformismo più bieco, le regole sociali che scandiscono il dire e il fare e fra le cui pieghe c’è però anche una possibilità d’amicizia (con il poliziotto che abita di fronte, un imprevedibile Ezio Greggio). Va presa nel suo contesto la cruda storia di Giovanna, assassina irresponsabile che finisce in un ospedale psichiatrico e alla quale starà accanto, solo contro tutti, esclusivamente il padre. Fra sensi di colpa e perdono, capacità di accettare di non capire e amore autentico.
Con uno stile rigoroso, una ricostruzione d’epoca perfetta, un realismo di tanto in tanto sospeso da un fendente onirico (realizzato per esempio tramite la deformazione lieve di un grandangolo), Pupi Avati va alla radice della condizione umana. E non ha timore di guardare in quel magma familiare, in cui l’indifferenza può non derivare da apatia (è il caso della madre), in cui l’affetto vero assume connotazioni anche imprevedibili e nel quale il dono può essere insieme fastoso e perverso. Certo un paradosso difficile da capire e soprattutto da vivere, rispetto al quale i giudizi precostituiti o le tesi generiche non sono affatto utili. Un paradosso che – sottolinea il regista – è comunque in grado di sostenerci e di accompagnarci nel difficile viaggio che ci troviamo di fronte.

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