Vivere in vetta

Giovani rifugisti crescono. Storie di chi sceglie di vivere ad alta quota

Martina, Andrea, Miriam, Chiara e Fabrizio sono solo alcuni dei giovani che hanno scelto di vivere parte dell'anno in montagna gestendo rifugi spesso inaccessibili in auto. Si dividono tra due vite: quella in alta quota e quella a valle dove, in inverno, svolgono altri lavori dall'ingegnere al forestale fino al panettiere. Con le storie dei gestori dei rifugi Oltradige al Roen, Fraccaroli e Settimo alpini entriamo nel mondo di questi ragazzi appassionati di montagna

di Rossana Certini

Rifugio Settimo Alpini, foto @ifugiosettimoalpini.it

Sempre più giovani scelgono di partecipare ai bandi per l’assegnazione della gestione dei rifugi di montagna e da maggio a ottobre vivono la loro vita immersi nella natura spesso in luoghi inaccessibili.

«A Bolzano avevo la sensazione di dover essere sempre circondata di persone per non sentirmi sola», spiega la trentatreenne Martina Bordigon che da cinque gestisce il rifugio Oltradige al Roen, del Cai Bolzano, insieme al compagno trentaquattrenne Andrea Minotti, «la città non mi accettava da sola mentre la montagna sì. Camminando ad alta quota non mi sono mai sentita sola».

Situato a 1773 metri di altitudine, alle pendici del Monte Roen, la cima più alta della catena della Mendola, spartiacque tra Alto Adige e Trentino, il rifugio è raggiungibile sia in circa 30 minuti di facile camminata per chi in auto arriva dalla Val di Non, sia percorrendo il sentiero nel bosco che da Passo Mendola in circa due ore e mezzo porta in vetta.

rifugio Oltradige al Roen, Cai Bolzano ©rifugiooltradigealroen.it

«Avevo bisogno di buttar via tutto quello che non è essenziale», prosegue, «ho dunque messo insieme il mio piacere di lavorare in un bar e l’amore per la natura e ho pensato subito ai rifugi, che mi hanno attirato fin da bambina, quando camminavo in montagna con mio padre. Mi affascina il fatto che l’uomo sia riuscito a costruire questi luoghi in posti anche impervi rendendoli parte delle vette che li circondano. Ho parlato del mio progetto ad Andrea, che era un po’ più esterno a questo mondo, ha condiviso l’idea e abbiamo partecipato al bando di assegnazione».

Rifugi a volte costruiti su vette inaccessibili con mezzi moderni. Dove si può arrivare solo con lunghe camminate e dislivelli impegnativi come accade per il rifugio Fraccaroli, della sezione Cai Cesare Battisti di Verona, posizionato in località Cima Carèga. Dal 2022 è gestito dalla ventenne Miriam Roso, di Valli del Pasubio, e dal ventiduenne Andrea Laghetto, di Schio, entrambi appassionati di montagna.

«Macchina e furgone li lasciamo a circa 500 metri di dislivello sotto», racconta Miriam, «poi con una teleferica portiamo su tutto quello che ci serve per il rifugio. Per i clienti, invece, l’unica via d’accesso è il sentiero che si percorre in circa due ore e mezzo. Il rifugio è aperto da giugno a ottobre. Ho finito le superiori e ho fatto una stagione da dipendente in un rifugio e da lì ho capito che volevo percorre quella strada. Quando non siamo qui torniamo a valle e Andrea, che è laureato in scienze forestali, lavora con ditte specializzate, io aiuto mia mamma in panificio».

Chiara Dall’Armi e Fabrizio Gaspari del rifugio Settimo Alpini @rifugiosettimoalpini.it

Il rifugio Settimo alpini, invece, è in località Pis Pilon, nel gruppo della Schiara bellunese a 1502 metri. Lo gestiscono i due giovani ingegneri Chiara Dall’Armi e Fabrizio Gaspari, entrambi istruttori di arrampicata su roccia per il Cai Belluno. La loro passione per la montagna li ha portati a fare questa scelta.

«Un sogno che si realizza», racconta Chiara, «siamo cresciuti a Belluno, anche se ora viviamo da dieci anni a Trieste. Dunque la Schiara, che sovrasta la città, è sempre stata nelle nostre giornate da ragazzi. Quando abbiamo visto che il rifugio Alpini si liberava abbiamo subito scritto un progetto per partecipare al bando».

Chiara e Fabrizio portano avanti due vite parallele una estiva nel rifugio e l’altra invernale in città dove hanno mantenuto i loro lavori da ingegneri.

«Non nascondo che è faticoso», conclude Chiara, «perché per metà dell’anno siamo presi in una cosa, il rifugio, che per noi è completamente nuova, però la nostra passione per la montagna ci aiuta. Certo star qui vuol dire non vedere altre montagne ma siamo ripagati dalle tante persone che vengono in rifugio con le quali si instaurano rapporti umani sinceri».

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