Famiglia
Giovani caregivers, ecco a chi chiedere aiuto
Sono 391mila in Italia i giovani tra 15 e 24 anni con responsabilità di cura verso un familiare. Sono invisibili e spesso schiacciati dall'obbligo morale verso la famiglia. Ma la ricerca e i servizi iniziano ad accorgersi di loro. Ecco a chi rivolgersi
Quando sua madre ha avuto un infarto, Claudia aveva 20 anni. Lei era in Università e l’ha saputo telefonando a casa, casualmente, da un telefono pubblico: voleva avvisare che sarebbe tornata a casa tardi, perché aveva deciso di andare a teatro. Sua madre è morta 19 anni dopo quell’ictus. Per tutti quegli anni «lei era il mio primo pensiero della mattina e il mio ultimo pensiero della sera. Mi sono chiusa in una bolla. Ho evitato di avere amici in casa, di frequentare i parenti. Odiavo come provassero pietà per lei, come parlassero di lei facendo finta che non fosse nella stanza. Lei era lì e nessuno le parlava»: così Claudia si raccontava in una testimonianza pubblicata sul sito del progetto europeo Me-We, conclusosi ad agosto 2021 e dedicato ai giovani caregivers. «Gli insegnanti dovrebbero essere più preparati a ciò che significa avere giovani caregiver tra i propri studenti, per sapere come approcciarli e conoscere i segnali a cui prestare attenzione. Se i miei insegnanti fossero stati preparati, avrebbero capito che i miei ritardi non erano dovuti alla pigrizia», le fa eco Margerita. «La scuola spesso è l’unico luogo dove possiamo avere qualche ora di serenità lontano da casa».
Young Carers, quanti sono?
In Italia sono 391mila gli adolescenti e i giovani tra i 15 e i 24 anni che devono occuparsi di un familiare: il 6,6% dei ragazzi di quell’età. Secondo l’Istat sono raddoppiati in solo cinque anni, fra il 2015 e il 2020. Euro Carers stima che l’8% di tutti bambini e gli adolescenti europei prestino cure, assistenza o sostegno a un familiare o un amico con una malattia cronica, una disabilità, una fragilità o una dipendenza, assumendosi livelli di responsabilità che di solito si associano a un adulto.
I giovani caregiver sono molti più di quanti si immagini e sono largamente invisibili. C’è ancora tanta riluttanza a venire allo scoperto, si teme lo stigma, l’essere marchiati come “diversi”. I loro bisogni? «L’impatto sulla scuola e sull’università, sulla socializzazione. Vivono responsabilità e solitudini che nei casi più gravi portano con sé problemi di salute mentale, la ricerca Me-We ci ha fatto vedere che una percentuale minoritaria di questi ragazzi, in termini di numeri assoluti sempre impressionante, manifesta sintomi tali per cui hanno il bisogno di essere trattatati, siamo oltre la promozione del benessere, c’è l’esigenza di una presa in carico», racconta Licia Boccaletti, presidente di Anziani e non solo di Carpi.
La cooperativa sociale si occupa di giovani caregivers dal 2012 ed è stata il riferimento in Italia per lo studio europeo, al momento il più ampio esistente sul tema. «L’impatto sulla scuola si traduce a cascata in ostacoli nell’accesso all’università e poi ad opportunità lavorative di qualità e di sviluppo di vita autonoma. I dati ci dicono quando bisogno ci sarebbe di agire in ottica preventiva ma se non c’è una rete adeguata questo non avviene. Il problema, oggi, è ancora questo: che in Italia questi ragazzi invisibili li intercettiamo ancora troppo tardi, solo quando il problema è esploso».
Una ricerca dell’Università Cattolica
Donatella Bramanti, ordinaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica di Milano, insieme alla collega Maria Letizia Bosoni ha appena realizzato la ricerca Giovani caregivers e transizione alla vita adulta. Quando la cura tra le generazioni diventa un rischio: verrà presentata il 30 ottobre in un seminario a Milano. Sono stati intervistati 14 caregivers, ventenni e trentenni, soprattutto donne, che si prendono cura o si sono presi cura assiduamente di familiari stretti, in particolare genitori con malattia psichiatrica o neurologica degenerativa, fratelli o sorelle con disabilità ed anche nonni anziani non autosufficienti. «La solidarietà intergenerazionale in questo caso diventa un indicatore di rischio per i giovani, che sono implicati in una cura eccessiva rispetto alle loro forze ma anche un indicatore di rischio rispetto alle famiglie, perché dice che a fronte di un bisogno rilevante questi nuclei non hanno le risorse per chiedere aiuto a chi di dovere», commenta Bramanti. «Saper chieder aiuto è una competenza e questo è uno dei motivi per cui la realtà dei giovani caregiver ancora oggi non viene facilmente intercettata: sono famiglie invisibili, sconosciute ai servizi. Non tutte le famiglie con problemi di salute richiedono che la cura sia prestata dai figli: il fatto che lo facciano, è un indizio di una difficoltà del nucleo stesso».
Non tutte le famiglie con problemi di salute richiedono che la cura sia prestata dai figli: il fatto che lo facciano, è un indizio di una difficoltà del nucleo stesso
— Donatella Bramanti, sociologa
Family obligation
La ricerca qualitativa non ha la pretesa di tratteggiare il ritratto del giovane caregiver. Da queste prime interviste, però, emerge come frequente la presenza di una mamma con problema psichiatrico, «perché la difficoltà a chiedere aiuto è più grave quando le problematiche sono più invisibili o meno dicibili», afferma la professoressa. «Abbiamo intervistato persone che ci hanno raccontato di come a 7 o 8 anni abbiano seguito una mamma con forte depressione o forte problema psichiatrico. Questa cosa manda in tilt l’organizzazione familiare, il padre se c’è lavora. La mamma non ha problemi di ricovero o che mobilitino il sostegno della famiglia allargata, ma magari è completamente paralizzata e non ce la fa ad affrontare né la propria vita né quella dei figli».
Spesso questi ragazzi si sentono schiacciati dal tema dell’obbligo e della riconoscenza
— Donatella Bramanti
La prima esperienza che i giovani caregiver fanno «è il percepirsi come diversi dai coetanei, con un’esperienza di vita che li pone in una condizione di diversità. Non hanno solo preoccupazioni e carichi di cura che i compagni non hanno, ma fanno i conti con il dolore, la sofferenza, la solitudine, il disagio in modo molto precoce. Hanno grandi difficoltà nel portare avanti gli studi, non tanto perché non hanno tempo di studiare ma perché studiare richiede una disponibilità alla concentrazione che loro non hanno: ciononostante per la scuola sono invisibili, la scuola non sa nulla e di conseguenza non sostiene e non aiuta. Fanno fatica a coltivare amicizie e relazioni. Tempo libero non ne hanno. Spesso si sentono schiacciati dal tema dell’obbligo e della riconoscenza: si sentono tenuti a fare quello che fanno, da un lato è vero che a loro vengono richieste molte incombenze ma dall’altra parte sono loro stessi ad assumersele, a ritenere di non poter uscire perché non possono lasciare la mamma da sola. La relazione di obbligo e riconoscenza diventa schiacciante», dice Bramanti.
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La cura dei nonni, una peculiarità tutta italiana
Una specificità tutta italiana, emersa nella ricerca europea Me-We, sono i ragazzi che si prendono cura dei nonni, spesso con demenza. Una dimensione favorita dal fatto dalla nostra struttura familiare, in cui più che in altri Paesi convivono più generazioni. L’Inrca di Ancona su questo nel 2022 ha pubblicato un paper sull’International Journal of Environmental Research and Public Health. In corso c’è Demcare4all, un progetto europeo per supportare i nipoti di persone anziane con demenza. Poco di concreto, invece, è derivato finora dal protocollo d’intesa siglato con il ministero dell’Istruzione: «Il protocollo è importante perché nelle interlocuzioni con gli uffici scolastici provinciali permette di ribadire la rilevanza del tema: ma le scuole poi hanno la loro autonomia e le iniziative restano in capo a loro, singolarmente», spiega Boccaletti.
Sostegni per i giovani caregivers: a chi rivolgersi
Licia Boccaletti dei segnali positivi, rispetto ad alcuni anni fa, li vede. «In termini di attenzione alla tematica registro una lenta ma costante crescita di attenzione, dai progetti di ricerca come quello della Cattolica alle prime tesi universitarie in materia agli interventi psicoeducativi dedicati ai giovani caregivers» spiega Boccaletti. «Quello che ci manca è il fatto che non c’è niente di sistemico, sono iniziative spot di organizzazioni, a volte legate a finanziamenti, a volte a bandi locali od europei, quindi per definizione senza continuità».
C’è una lenta ma costante crescita di attenzione, dai progetti di ricerca alle prime tesi universitarie, agli interventi psicoeducativi dedicati ai giovani caregivers. Però non c’è niente di sistemico
— Licia Boccaletti, presidente di Anziani e non solo
Tra i progetti finanziati dall’impresa sociale Con i Bambini, per esempio, in Puglia è partito Le(g)ami, che si rivolge agli adolescenti caregiver (11-14 anni). A Bergamo invece Abitare le età Onlus si dedica in particolare ai siblings, ossia giovani che assistono un fratello con disabilità. A Milano è nato da poco Young Care Italia, le cui promotrici sono proprio ex giovani caregiver. Da tempo invece il Children of mentally ill parents-Comip offre supporto e fa sensibilizzazione: per esempio propone annualmente alla scuole la visione gratuita di un film inedito, che accenda la luce sulle vite nascoste dei minori e dei giovani adulti che hanno responsabilità di cura, con la possibilità di un dialogo con il regista o un attore.
«Con l’Ausl di Modena e l’ufficio scolastico provinciale abbiamo avviato un progetto che punta a dare a tutti i docenti delle scuole superiori della provincia una prima formazione di base sui giovani caregiver e ad avere in ogni scuola almeno un docente che abbia fatto un percorso di secondo livello, che sappia come agire in favore di questi ragazzi. È un modo per uscire dalla occasionalità», dice ancora Boccaletti. Il progetto si chiama “Al fianco dei Giovani Caregiver: uno sguardo oltre l’invisibilità” e nel 2022 ha coinvolto oltre 60 tra docenti e personale scolastico delle scuole superiori della provincia. Anche il Comune di Ferrara ha fatto recentemente un bando su questo tema, coinvolgendo le scuole superiori, con il progetto “Giovani Caregiver, forti sì ma anche fragili”.
«L’approccio che abbiamo deciso di adottare, come Anziani e non solo, è di andare verso un approccio mainstream, tenendo alta l’attenzione ai giovani caregivers nell’ambito di tutti i nostri progetti e servizi per i caregivers in generale. Quando un caregiver principale accede ai nostri percorsi chiediamo sempre se c’è un adolescente o un giovane in casa e che impatto ha su di lui la situazione. A quel punto, per chi desidera, avviamo un supporto dedicato, uno ad uno. Le attività di gruppo che abbiamo fatto e che crediamo siano dal punto di vista pedagogico l’approccio migliore, ma si scontrano in realtà col fatto che intercettare questi ragazzi è difficile ed è un peccato “costringere” le persone ad attendere la formazione di un gruppo quando l’esigenza di aiuto è immediata».
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