Generazione Z
Giovani caregiver, se il lavoro di cura mette a rischio il futuro
Il 7% dei giovani italiani, tra i 14 e i 25 anni, sono chiamati ad assistere parenti fragili e non autosufficienti. Sono per la maggior parte studenti e i loro compiti di assistenza vanno dalle attività domestiche alla cura della persona. Condizioni che generano inevitabilmente fatiche nello studio, se non un vero e proprio abbandono, difficoltà di relazione e problemi psicologici
Studiare, o per lo meno cercare di farlo, tra un compito di cura e un altro. Sono arrivati a sfiorare il 7% i giovani italiani tra 14 e 25 anni chiamati ad assistere parenti fragili e non autosufficienti; lo fanno con un carico settimanale che varia dalle 20 alle 24 ore.
Si occupano di un genitore, una sorella, un nonno; sono persone con disabilità o problemi di salute mentale, malattie oncologiche o patologie croniche invalidanti. I Gen Z caregiver sono per la maggior parte studenti e i loro compiti di assistenza vanno dalle attività domestiche alla cura della persona, senza tralasciare il carico del supporto emotivo. Condizioni che generano inevitabilmente fatiche nello studio, se non un vero e proprio abbandono, difficoltà di relazione e problemi psicologici, in una situazione in cui alla fine ci si ritrova adulti senza mai essere stati adolescenti.
Si tratta al tempo stesso di una generazione, rispetto alle precedenti, sempre alla ricerca sui canali digitali di informazioni per una via di uscita da una totalizzante dinamica quotidiana di assistenza. Prima però di arrivare a questo, deve compiere un passo fondamentale: riconoscersi ed essere riconosciuta nel ruolo.
È questo il quadro che emerge dall’impegno sul campo di realtà che affiancano gli young carers con l’obiettivo di fornire loro un aiuto concreto. Quello su cui è necessario lavorare molto, soprattutto per la fascia che si trova ancora alle scuole superiori, è far emergere maggior consapevolezza dei compiti di cura. Spesso sono ragazzi che curano da sempre, altre volte la giovane età li induce a negare il ruolo. Anche la scuola si accorge di tutto questo con grande fatica. «Servono insegnanti adeguatamente formati, che possono svolgere un ruolo fondamentale nell’identificazione precoce e nel supporto alla conciliazione, per alleggerire i loro compiti permettendogli di concentrarsi su sé stessi e sulle proprie aspirazioni» evidenzia Clarissa Giuliani, psicologa dello sviluppo, che sul tema collabora con Young Care italia, associazione che aiuta i giovanissimi caregiver.
C’è poi un fenomeno nel fenomeno, quasi sempre invisibile. Spesso a vivere tutto questo sono ragazzi di seconda generazione, delegati alla salute di tutta la famiglia, anche quando non si tratta di prenotare per parenti una visita medica ma di accudire nel quotidiano chi non ce la fa da solo, bambino o anziano che sia. «Hanno una conoscenza linguistica maggiore, competenze e risorse più avanzate che inevitabilmente li portano a essere il riferimento per la salute. Per loro è la normalità, ma questo è un modello da scardinare» evidenzia la psicologa.
Micaela Arfani, educatrice professionale e counsellor, è coordinatrice del Centro politiche giovanili e dello Spazio Informagiovani del Comune di Pioltello (Milano). Con l’associazione YCI ha analizzato il fenomeno dei caregiver studenti di seconda generazione, per una collaborazione con l’Azienda Unità sanitaria locale di Bologna, partendo dall’esperienza del suo territorio, dove i residenti stranieri superano il 26%. Per la counsellor spesso sono le etichette a rendere invisibile il ruolo di cura. Si dice che il ragazzo è in crisi o che non è seguito, la ragazza è svogliata o la famiglia è difficile: l’aiuto in prima battuta è sul supporto e l’orientamento scolastico. Poi, solamente in un secondo momento, emerge l’impegno da caregiver e si scopre un adolescente bisognoso lui stesso di cure, di ascolto, per essere alleggerito del ruolo di “salvatore” della famiglia.
Una storia su tutte è esemplare: Karim (nome di fantasia) viene segnalato come a forte rischio abbandono scolastico, a causa delle molte assenze e del poco impegno. L’Informagiovani riceve la richiesta di riorientarlo. E qui emerge il vero problema: in casa il papà è disabile, la madre non parla italiano, ci sono due fratellini piccoli e tanti problemi economici. «Quando non vado a scuola, ho cose più importanti da fare» ammette il ragazzo, che confida: «Tutti contano su di me». Karim “offre” cure, quando in realtà dovrebbe essere ancora lui a riceverne. La scuola che non comprende la vera natura del suo disimpegno diventa per lo studente un ulteriore peso.
Eppure ambiente scolastico e servizi territoriali di prossimità sono fondamentali per dare un supporto concreto e fornire un “first aid kit” ai caregiver studenti, dove si parte proprio dal riconoscimento del ruolo per arrivare al confronto tra pari e a un progetto per riappropriarsi di prospettive, sogni e bisogni. Anche un solo insegnante che comprende il carico di cura di uno studente può fare la differenza nell’approccio e nell’aiuto, agevolando la carriera scolastica e limitando il drop out. Esistono diversi segnali cui prestare attenzione, dalla rabbia alla disattenzione, dallo stress alla stanchezza.
Parlare del fenomeno è il primo passo per coinvolgere gli attori sociali che possono intercettarlo e di conseguenza attivare canali di sostegno che portano i ragazzi a compiere i primi passi verso un aiuto in grado di restituire loro un’età bruciata dal dovere di cura.
Solo allora le cose cambiano ed emergono altre caratteristiche dei Gen Z che curano. «I caregiver giovanissimi che arrivano da noi, una volta raggiunta la consapevolezza di esserlo, appaiono più determinati di altre generazioni nella necessità di trovare un maggiore equilibrio tra la loro realizzazione e la cura dei cari» evidenzia Carla Piersanti, responsabile area servizi di Fondazione Ravasi Garzanti. «Chi ha un’età diversa, invece, ci contatta spesso con la modalità “non ce la faccio più” e già in burnout». La Fondazione, che si occupa di servizi per chi affronta malattie come l’Alzheimer e la demenza senile, affianca i caregiver in percorsi di formazione o supporto psicologico, individuale o di gruppo. «Non solo» continua Piersanti. «Un aspetto importante è quello della bellezza. Far vivere momenti legati all’arte nelle sue diverse forme, al caregiver e alla persona assistita, è un aspetto su cui stiamo investendo molto, in termini di energie e risorse. I giovanissimi sono ben disposti a sperimentarsi in questo». Un progetto di biblioterapia e percorsi museali sono solo alcune della attività proposte.
Anche Young Care Italia organizza incontri con gli studenti caregiver. Perché è importante riscoprirsi in ruoli che non siano di cura. L’associazione ha di recente ideato percorsi nelle università di Milano, con l’idea di parlare del fenomeno e diffondere la consapevolezza che manca e può essere la chiave di volta per potersi occupare dei propri cari senza dover per forza sacrificare studio e realizzazione personale.
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